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Ancora Guzzano. Per chi volesse leggere qualcosa di intelligente su Pasolini diverso dalle patetiche incensature bipartisan di questi giorni.

30 anni dopo il Lido di Ostia – il cinema di PIER PAOLO PASOLINI: uno sguardo ALTRO

Quando Pier Paolo Pasolini decide di mettersi a fare anche il regista, in Italia è l’anno del Signore 1960, lui ha quasi 40 anni, vive a Roma ed è fresco del successo di “Una vita violenta” dopo stagioni stentate ma caparbie, fatte di fughe e di squalifiche pisco/politiche che non l’hanno comunque piegato. Di tecnica cinematografica non sa nulla, né molto vorrà mai sapere. Anche quando si piegherà al colore (in “Medea”) e a qualche giochetto più sofisticato con la macchina da presa, si trattò di minime alterazioni dell’ingenuità che egli riteneva necessaria, elementi rilevabili solo per contrasto con il totale disinteresse ‘tecnico’ esercitato fino ad allora. Far seguire all’inquadratura quel minimo di abbecedario che la celluloide richiede fu sempre compito di altri: del suo aiuto Bertolucci, delle troupe che spesso giravano un film canonico e parallelo mentre il regista realizzava in proprio le sue immagini scorazzando con la camera in spalla.
Perché il cinema per Pasolini fu un atto di istinto. Come il marxismo. Una tensione ritenuta indispensabile e giusta verso il lato debole del mondo. (Mamma Roma, a caccia di borghese uguaglianza, non vuole che il figlio se la faccia con i comunisti perché sono ). Il posto giusto, la parte giusta al cui interno operare sfidandone le regole e i conformismi camuffati da rivoluzione (inutile sottolineare quanto entrambi – cinema e Pci – svilupparono ben presto violentissimi anticorpi contro di lui). Fu lo sfociare di una passione che non faceva distinzione tra i canali in cui sentiva di doversi esprimere. Nonché la tentazione di portare all’interno di un’arte codificata le armi di un totale disarmo estetico. Lo stesso vale per la sua lettura del Cristo: una scarnificazione naif della figura e una cancellazione della liturgia che non furono del tutto sgradite al lato progressista del clero di Giovani XXIII.
Dire che Pasolini fosse digiuno di tecnica non vuol dire che per lui il mondo del cinema fosse un pianeta sconosciuto. Lo bazzicava da anni: prima comparsa a Cinecittà, poi collaboratore alle sceneggiature di Soldati, Bolognini e Fellini che l’aveva voluto consulente per la ‘romanità’ dei dialoghi di “Le notti di Cabiria”. Ma non trovò il minimo credito quando mise al servizio dell’imperizia con la macchina da presa le sue impresentabili ispirazioni: il cinema muto, i russi, Chaplin (citato ad ogni angolo), eterni primi piani, salti di tempo e luogo non spiegati, un fritto misto composto da facce prese dalla strada e messe sulla scena ad interpretare se stesse in ambienti essiccati ma su celebri sfondi di musica classica e col rischio di incappare nelle repliche di seducenti opere di quella storia dell’arte che tanto aveva suggestionato Pier Paolo studente universitario. Poi verranno le voci e le facce note, amici intellettuali e adorate dive un po’ in disarmo: la Magnani, la Mangano, la Callas. E’ il lato devoto/glamour di ogni omosessualità.
Il cinema di Pasolini è pura testimonianza e pura pornografia. E non certo nel senso in cui l’intesero i mille processi, sequestri e picchetti su cui sorvoleremo e che ne tormentarono lo sviluppo disonorando la nostra mediocre patria (reazionaria e bigotta, anche lei per istinto. Ma istinto figlio d’ipocrisia). E’ pornografico nell’esibizione stentorea delle bruttezze dei visi, dei sassi, delle discariche, dei casermoni e delle coscienze fino a scovarvi dentro una bellezza sfrondata e perduta, soffocata da un progresso omologante e (è la compassione che manca a Ciprì e Maresco, laddove il peto suona meno necessario che in Pasolini). E’ l’occhio sgranato di un testimone curioso eppure rassegnato che percuote i suoi personaggi alla disperata ricerca dell’aurora del mondo. E’ cinema preistorico: fatto di ossa, cannibalismi, Storie millenarie accostate a storiacce presenti (< ..il percorso dell’uomo non è che memoria cancellata..>), corpi martoriati, interpreti sgrammaticati, assoluto e celebrato senso di morte. Provate a scorrere le trame di Pasolini e vi accorgerete di star percorrendo una via crucis che parte da “Accattone” (ed è bello che a Parigi ci sia un cinema con questo nome), “Mamma Roma” e “La ricotta”, risplende nel “Vangelo secondo Matteo”, passa per i film e i corti con Totò (parolai certo, comizianti ed irrisolti), non risparmia neppure “La trilogia della vita” e sfocia in “Salò” e nella fine stessa dell’uomo/autore: insistite tappe di morte, di creature sghembe che muoiono salutate festosamente dall’idea che solo morendo esse siano finalmente esistite. La fine di se stessi come protesta, come unica possibile rottura, come ‘fanculo al sistema dell’esistenza borghese, che è robaccia tanto scaltra da sapere come inglobare ogni dissenso, ogni grido, ogni critica: ovattando tutto, rispettosa e tollerante.
Dopo aver assistito al “Teorema” per immagini di Pasolini (per il borghese nato tale non c’è redenzione, per gli altri l’unico scampo è estinguersi in qualcosa perché < ..non vi può essere uguaglianza ricevuta, ma solo uguaglianza conquistata>) è difficile evocare complotti dietro ciò che avvenne sulla spiaggia di Ostia. Comunque sia andata vi si compì un epilogo, la sceneggiatura tragica che al suo protagonista sarebbe probabilmente piaciuto scrivere. Sia che Pasolini sia stato solo un artista di talento che fece una tragedia cosmica del suo piangere sulla scomparsa del proprio ideale sessuale (il borgataro/marchettaro non contaminato dal consumismo) come oggi recita parte della critica omosex (Giovanni Dall’Orto in testa); sia che egli sia stato il profeta di un’Italia ancora da svezzare e in perenne dittatura, un paese diviso ed incapace di ascoltare (di tollerare sì, ed è quello il guaio), un cane sciolto che abbaiava al sacro e al profano miscelandone gli orrori e le beatitudini, Pasolini fu uno che credette che l’unico modo per fare la rivoluzione fosse vivere come se la rivoluzione fosse già stata fatta. Tutto il suo cinema, volutamente imperfetto nelle forme e fieramente sovraccarico nelle sostanze (difetti che ne zavorrano oggi la possibilità di essere materia durevole), è lì a provarlo: ostinati tentativi di un’anarchia apocalittica che spezzasse le reni all’omologazione creando un luogo, un tempo, un uomo Altro. Toccata con mano l’impossibilità di ottenere un risultato di estrema rottura almeno a livello culturale, dopo aver peregrinato per l’India e l’Africa alla ricerca di dinamiche più pure, dopo aver rinnegato con dolore quella “Trilogia della vita” in cui il sesso sbocciava naturale e sereno essendo pre-tutto, a Pasolini non rimase che l’estremo graffio indecente, la bomba atomica lanciata contro la perdita di ogni innocenza: quel disturbante “Salò” i cui stessi attori si ribellavano alle sconcezze. Quanta eccitata disperazione nella mano che ci imbandisce la merda in tavola, che tende quei guinzagli, che va a ricercare in Sade (nei Sade di ogni tempo) i perversi figuri che hanno fatto vergogna anche dei bisogni corporali più immediati e necessari, i pilastri di quella che Pasolini finì così di rimpiangere e di sollecitare.

Fonte: www.alessioguzzano.com

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