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Crash - Contatto fisico

Ring del 17 03 2006

 
 
    Dati
  • Questo ring è stato letto 10334 volte
 
 
 
 
 
 
 
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Contro

Recensione contro

San Cristoforo porta rogna?

di Sara Troilo

"Sotto un cielo di ferro e di gesso l'uomo riesce ad amare lo stesso e ama davvero"

 

Il film vincitore dell'Oscar Crash-Contatto fisico (e il complemento del titolo è fondamentale, non sia mai che questo lavoretto da scuola di cinema e di catechismo si confonda con il perturbante Crash di Cronenberg) si apre con un monologo che verte sulla mancanza di contatto con altri esseri viventi nel XXI secolo in quella Los Angeles che fa da cornice alla storia. Solo lo scontro permette il contatto, dice il detective Graham (Don Cheadle) a Ria (Jennifer Esposito) sua collega e sua amante che è in auto con lui e che, dopo avergli dato del cretino, scende e va a dirne quattro all'asiatica che ha appena tamponato. L'incipit è accattivante e lo è anche la presentazione degli altri personaggi della storia: la ricca Jean (Sandra Bullock) è la moglie dell'infame procuratore Rick Cabot  (Brendan Fraser), la coppia verrà derubata della propria auto da due ladri di cui seguiremo le gesta per tutto il film; Christine (Thandy Newton) e suo marito Cameron si imbattono nel "momento no" dell'agente Ryan, un grande Matt Dillon in versione sbirro bianco e razzista che lascia senza fiato il proprio collega Hansen (Ryan Philippe) per una perquisizione molto approfondita e assolutamente pretestuosa della signora.
A questi personaggi si legheranno le vicende di un ispanico che ripara le serrature e di una famiglia siriana proprietaria di un negozio.  Nel film di Haggis (sceneggiatore dello splendido Million Dollar Baby) l'insulto la fa da padrone, i toni dei dialoghi sono sempre molto accesi e nessuno dimentica mai di rilevare la provenienza geografica, anche presunta, di chi ha davanti a sé (i siriani vengono scambiati per arabi, Ria per una messicana quando nessuno dei suoi genitori lo era). Potrebbe anche darsi che un espediente del genere funzioni, ma qui diventa una specie di ossessione, una litania continua, a un certo punto un gioco, quando due personaggi si parlano, puoi infatti scommettere con chi sta guardando il film con te sul secondo esatto in cui da un neutro, ma anche dignitoso "non sai guidare" si passa al "muso giallo parlami nella mia lingua, io sono americano e i cinesi non sanno guidare". Dalle lezioni di razzismo verso i neri che uno dei due ladri di auto dispensa di continuo, alle sparate improvvise della Sandrona (Bullock) che sotto stress si trasforma in Borghezio, dopo dieci minuti capiamo che il tema del film è lo scontro. Devo dire che anche a leggere il titolo un dubbio mi era venuto, ma non voglio mettermi a fare la prima della classe (di una scuola europea per di più).
E mi atterrò ai fatti. La coreografia generale regge abbastanza, tutti gli attori sono ben diretti e la regia suggestiva, ma la storia diventa noiosa e ripetitiva, e se è vero che nessuno dei personaggi resta uguale a se stesso, è anche vero che alcuni cambiamenti hanno più a che fare con la folgorazione sulla via di Damasco (o di Hollywood) che con un percorso proprio, una motivazione forte (anche perché tutto si svolge in 24 ore). Il cinismo, che impera nella prima parte del film e che si squarcia solo a tratti per mostrare lati umani di uomini e donne che non sembrano affatto umani (penso alle scene notturne in cui l'agente Ryan assiste il padre), pian piano evapora, per lasciare campo libero ad un serpeggiante buonismo che sparge ovunque il proprio pestilenziale virus in chiusura di film. Tant'è vero che, a una prima visione, il finale è in grado di distruggere tutto quanto e lasciarti con un'espressione disgustata ed è un peccato perché questo Crash qualcosa che funziona ce l'ha, a patto di non paragonarlo a Magnolia e di avere ben presente che non bastano più di quattro personaggi per parlare di Altman. Anche San Cristoforo è testimone delle tante pecche del film. Il santo appartiene alla mitologia personale di due ragazzi molto diversi e tornerà più volte a rimarcare questa somiglianza profonda che si spinge al di là di qualsiasi apparenza e questa, signore e signori, è retorica della specie più bieca. La morale del film è che sotto un cielo di ferro e di gesso l'uomo riesce a odiare senza problemi e odia davvero? Ma magari! L'uomo odia, almeno d'istinto, ma se gli gira bene ti salva anche dagli incidenti senza nemmeno curarsi del colore della tua pelle.
Il regista Paul Haggis è stato inserito dalla Razor Magazine nella lista degli "anticonformisti che combattono le regole, gli iconoclasti che si aggrappano al pensiero indipendente, i radicali che rifiutano di adattarsi", la fonte e' il pressbook del film. Però Haggis! Complimenti! Chi ci sarà mai a farti compagnia in questo elenco di radicali che rifiutano di adattarsi? Ebbene nella lista c'è anche Bill Clinton e questo mi fa dubitare di due cose: della lista in toto e del fatto che in redazione alla Razor abbiano kosovari.  Un'ultima notazione va alla scelta di premiare questo film e non Brokeback Mountain. Preso atto del fatto che non può essere stata di certo una scelta determinata dall'orgine del regista Ang Lee, dal momento che gli americani sono tanto bravi a mostrare in pubblico il proprio razzismo e sono capaci di discuterne, l'unico dubbio che mi resta è che siano rimasti omofobi.

 
 
 
 
 
 
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A favore

Recensione a favore

Se si copia bene e si parla di intolleranza.. perché no?

di Alice Trippolini

Il vincitore dell'Oscar, Crash di Paul Haggis è un bel film. Ben scritto e ben girato, tranne alcune sbavature, è sicuramente meglio di milioni di schifezze prodotte e sbolognate al cinema tanto per guadagnare qualcosa. Certo, l'idea del film corale non è propriamente nuovissima, l'hanno già realizzata Altman e Paul Thomas Anderson con risultati migliori. Cio' nonostante, pur copiando una formula e rimanendo politicamente corretto, il risultato è apprezzabile. L'Oscar non era meritato, anche se un premio ci poteva stare: contro Ang Lee, che ha diretto un piccolo capolavoro con quattro attori, non c'era competizione. Comunque, lo sceneggiatore di Million Dollar Baby, qui anche in veste di regista, ha scritto il film ispirandosi alla città di Los Angeles e alla sua storia personale con un obiettivo preciso: mostrare le intolleranze della società americana moderna. Le contraddizioni, il razzismo, ma soprattutto i piccoli e ordinari episodi di ira che spingono le persone a sfogarsi con il prossimo. Il tutto avviene in 24 ore e forse l'espediente di intreccio forza un po' il dramma. Il film riesce a mostrare l'intolleranza e le sue derivazioni in pieno, pur lasciando molte domande in sospeso e consolando un po' il pubblico con un happy end relativo. Il fatto che alcune vicende si concludano in modo positivo e che alcuni personaggi cambino in parte il loro atteggiamento non toglie credibilità all'interno film, che dimostra di tenersi bene sul filo della lacrima facile. Nel coro dei personaggi troviamo un po' di tutto: c'è la coppia borghese (Brendan Fraser e Sandra Bullock) a cui due neri rubano l'auto, lei arrabbiata e snob, lui politico falso e calcolatore; c'è un detective nero (Don Cheadle, anche produttore) che ha un fratello drogato e una madre alcolizzata.
C'è il regista famoso e nero (Terrence Howard) con la compagna asiatica (Thandie Newton) che viene molestata dal poliziotto bianco molto razzista (Matt Dillon, il migliore). Il poliziotto cattivo, che però ha problemi di soldi e non può curare il padre, ha un compagno biondo e buono (Ryan Philippe) che alla fine si lascia prendere dal panico e uccide un nero senza motivo. Come a dire, anche se non sei razzista, possedere un'arma ed essere costantemente immerso in un clima di assedio e paura del prossimo, può farti perdere la ragione. Allo stesso modo, avere potere ed essere sempre proiettato all'autoaffermazione, porta ad usare questo potere contro i più deboli. Il titolo rimanda anche e soprattutto al contatto tra le persone che vivono in una città così eterogenea senza conoscersi, sempre a distanza e sempre sospettose. Il loro crash è spesso distruttivo e controproducente,  tira fuori la parte peggiore di tutti e li spinge a sfogarsi con il prossimo. Qui la sceneggiatura, soprattutto grazie ai dialoghi, contribuisce molto a far emergere il background delle figure coinvolte, anche sottolineando il "non cambiamento" di alcune di loro. L'impiegata nera, il politico e il poliziotto biondo rimarranno come sono: la prima continuerà a essere razzista, il secondo tradisce la moglie e non si avvicina a lei dopo la crisi di paura per il furto d'auto e l'ultimo brucerà il cadavere senza troppi sensi di colpa.
Positivo il richiamo al razzismo verso quel mondo arabo di cui non si ha alcuna cognizione, una famiglia persiana viene infatti discriminata perché etichettata come musulmana: per gli americani tutto quello che si trova più a est dell'africa è musulmano e quindi nemico. Apprezzabile anche il colpo di scena finale, mentre appare poco credibile la figura del detective nero interpretato da Don Cheadle, che non si sa bene cosa debba rappresentare. Insomma, un film con qualche stereotipo di troppo (il poliziotto è cattivo perché ha il padre malato, il politico è calcolatore e la moglie è snob, i cinesi sono sempre sfruttatori di popoli più deboli e i neri sempre discriminati nella carriera) e idee usurate (crescita della tensione finale, redenzione dei personaggi, fotografia scura e sporcata) ma girato con onestà, senza inutili virtuosismi o drammi enfatizzati per commuovere lo spettatore. Non un campione di tecnica registica o innovazione stilistica, ma coinvolgente. Almeno per me.
Un buon film, che parla di intolleranza e solitudine nell'America spaventata e sotto assedio di Bush

 
 
 
 
 
 
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Commenti
 

I lettori hanno scritto 12 commenti

 
 
utente
Sery 95
  • indirizzo IP 85.18.14.40
  • data e ora Sabato 31 Marzo 2007 [14:02]
  • commento so che non mi vedete ma sono stupenda,bellissima,
 
 
 
 
 
utente
Luigi
  • indirizzo IP 151.65.229.221
  • data e ora Sabato 31 Marzo 2007 [16:49]
  • commento E quindi? :)
 
 
 
 
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