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Info
 

Manderlay

Ring del 04 11 2005

 
 
    Dati
  • Questo ring è stato letto 14416 volte
 
 
 
 
 
 
 
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Contro

Recensione contro

Lascia l'America e torna fra noi, Lars!

di Eduard Le Fou

Vorrà dire qualcosa se all'ultimo Festival di Cannes, manifestazione che da sempre ha supportato Von Trier innalzandolo a idolo internazionale del cinema d'autore europeo, Manderlay è passato quasi inosservato senza vincere nemmeno un premio di consolazione? Forse. Di sicuro l'ultimo film del regista danese ribadisce tutti i dubbi intorno a questa astrusa trilogia sugli USA, inaugurata due anni fa con Dogville e che si concluderà con Washington. Tolti infatti la personalità forte e la magnetica interpretazione di una Nicole Kidman (o di una Bjork o di una Emily Watson) e l'effetto-sorpresa per gli spettattori meno vaccinati di essere girato in teatro quasi senza scenografie, in Manderlay non resta molto più che una supponente quanto superficiale lezione sulla democrazia, sullo schiavismo e sui risvolti sado-masochistici che esso nasconde in sé. Siamo di nuovo in America, anno 1933. Grace lascia Dogville insieme al suo padre-gangster che per motivi di affari si dirige a Sud. Durante il viaggio si imbatte in uno sperduto villaggio chiamato Manderlay i cui abitanti vivono in condizione di schiavitù nonostante essa sia stata da tempo abolita. Grace farà di tutto per liberare gli abitanti di Manderlay, mostrando loro quanto ricchi siano i frutti che si possono ottenere tramite la fraterna cooperazione di tutti i cittadini di ogni razza e ceto. Anche a costo di usare lei stessa la violenza.
Ovviamente la situazione le sfuggirà di mano. Mentre il soggetto di Dogville si ispirava all'Opera da tre soldi di Brecht, quello di Manderlay si rifà alla prefazione scritta dal critico Jean Paulhan per Histoire d'O, intitolata Happiness in slavery, dove si narrava la vicenda di alcuni schiavi delle Barbados che dopo la ribellione ai propri padroni, non essendo educati ad autogevernarsi, ristabiliscono lo stato di schiavitù. Nonostante questi altisonanti modelli, non si può non ammettere che Von Trier mette in piedi una favoletta piuttosto semplicistica, apparentemente sorprendente nelle forma, il cui contenuto morale non è dei più originali: gli USA sono una nazione complessa, piena di contraddizioni, il cui DNA è intriso di violenza e sopraffazione che spesso si trasformano in strumenti per imporre la democrazia, dentro e fuori dal proprio territorio. Un film quindi che non aggiunge nulla ai temi della complessità delle società multietniche e della democrazia. Molto cinema americano, da Griffith a Spike Lee, ha svolto il tema con migliori risulti e il necessario approndimento sociologico. Von Trier resta un ottimo regista di attori, un crudele e ironico osservatore dei rapporti umani, capace di (de)scrivere personaggi femminili come pochi autori attualmente in circolazione. Ma da quando ha deciso di fare il moralista, tutto il suo cinema è stato sottomesso ad uno strumentale fine didascalico, peccando di intellettualismo, perdendo di spessore artistico e cercando l'originalità con trovate di messa in scena di cui non si capisce il senso.
Perchè eliminare le scenografie? Per mostrare che il cinema è finto? Sarebbe meglio dire che lo si fa per risparmiare (visto che ora è produttore dei suoi film). Qualsiasi spettatore sa che la finzione è una sorta di muto accordo tra autore e fruitore di un'opera teatrale e cinematografica. L'imporante è che ciò che viene rappresentato non sia falso, cioè appositamente ideato per imporre un'idea al pubblico, senza spazio per l'ambiguità, la sorpresa, la sincerità come attitudine artistica. Lo straniamento dovrebbe essere un atto di rispetto verso lo spettatore, come assunzione di responsabilità riguardo a ciò cui sta assistendo, in nome dell'amore per un'opera, più o meno artistica essa sia. Non come in Manderlay, o in Dogville e parzialmente in Dancer in the dark, dalla cui visione si esce con la sensazione di essere stati defraudati del rispetto e della passione per il Cinema, in cambio di un messaggio artatamente pessimista sulla natura umana.

 
 
 
 
 
 
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A favore

Recensione a favore

Consacrazione

di Stefano Tirelli

Manderlay, una piccola piantagione di cotone in Alabama. Inizia qui la seconda parte della trilogia sull'America vista da Lars von Trier. Ormai esplicito e annunciato negli intenti, con questo episodio si cimenta nell'arduo compito di realizzare il secondo film con le costrittive regole formali di Dogville. Eppure abbiamo davanti una delle più grandi prove autoriali di Lars von Trier dall'inizio della sua carriera e uno dei migliori film della nuova generazione di registi danesi. La struttura è la stessa: per terra poche tracce di gesso, i nomi delle location e nessun muro a separare il terreno dai locali in cui si svolgerà tutto il film, tutto e' ricreato all'interno di un unico grande ambiente. Certo, Lars non poteva più contare sull'effetto novità e ne è ben conscio. La scenografia è molto più ricca di quella di Dogville, tanto che a volte ci si dimentica quasi che tutto si svolge in un unico interno. L'effetto cinematografico \ teatrale postulato in Dogville arriva qui a un'espressione superiore: ne perde l'invasività, seppur funzionale nella precedente opera, e diventa un elemento in più che si fonde armoniosamente con l'articolato contesto. Questo dimostra come Lars von Trier sappia perfettamente che è necessario mettere da parte il narcisismo che anima le sue opere quando ha ormai esaurito la sua funzione provocatoria. Questa volta Grace, interpretata da una Bryce Dallas Howard che non fa rimpiangere Nicole Kidman, non passa più il suo tempo ad aprire e chiudere porte immaginarie e raramente abbiamo visioni d'insieme di tutto il set, anzi, dalla scelta di alcune prospettive sembra che l'intento sia quello di mascherare l'artficiosità del set, piuttosto che ostentarla come nel precedente film.

L'altro potente strumento di cui si avvale Trier nella sua arte comunicativa cinematografica è l'immersione dello spettatore nella prospettiva della protagonista. Dogville era un film fisicamente duro da tollerare anche per lo spettatore più preparato, la forzatura dell'ambientazione e il dilatarsi dei tempi cinematografici convenzionali ponevano lo spettatore in una prospettiva di sofferenza e ingiustizia che lo avvicinava molto allo stato d'animo di Grace, rinchiusa in un villaggio di ipocriti sfruttatori. Questa volta Grace non soffre, ma è continuamente stupita da come tutto ciò che faccia per tentare di "salvare" dalla mentalità della schiavitù il gruppo di neri che lavorano alla piantagione, si ritorca contro di lei e sortisca l'effetto opposto di quello sperato. Parallelamente, lo spettatore è nella stessa situazione di stupore grazie ad alcuni plot twist decisamente imprevedibili, a volte artificiosi quanto la scenografia di Dogville, che dimostrano come il progetto di Lars von Trier sia tutt'altro che lasciato in balia del vezzo della sua arte provocatoria. Al contrario, Manderlay è un concerto d'autore raro e unico nel suo genere. E' la consacrazione della nuova, ineguagliata prospettiva del cinema di Lars von Trier, dove niente è lasciato al caso anche quando è guidato dall'energica passione provocatrice che ha animato la produzione del regista danese sin dai primi tempi. E' un film su cui riflettere per giorni, per capire come tutto abbia una sua collocazione nella filosofia che lo sottende e ne costituisce l'ossatura, molto di più di qualsiasi scenografia o sceneggiatura.

Manderlay è un film a tesi quanto Dogville e questo non può essere ignorato, poiché abbiamo a che fare con un cinema fortemente costruito sui contenuti, diametralmente opposto all'impianto teorico delle opere di Tim Burton, Peter Greenaway, David Lynch che traggono la loro forza dalle immagini e solo a volte da ciò che esse rappresentano. E' questa l'esclusiva espressione del Dogma, morto di cause naturali, le stesse che l'avevano generato, per dare vita a questa ineguagliata visione del cinema.
I contenuti su cui riflettere sono l'oppressione e il ruolo dell'occidente nella genesi dell'attuale generazione di afro-americani e il loro riluttante inserimento nella società moderna. La tesi è scontata, ma le metafore di Trier sono tutt'altro che unidimensionali, anzi, aprono a un ventaglio di considerazioni che trascendono le parole e, soprattutto, colpiscono direttamente il cuore del problema di causa ed effetto della spirale di violenza e povertà che ruota attorno alla popolazione di colore degli Stati Uniti. Nessun lieto fine. Manderlay è quasi documentaristico in questo, il giudizio è esplicito, ma il compito di risolverlo, moralmente o pragmaticamente, è lasciato allo spettatore, che alla fine del film si trova ancora una volta spaesato, distrutto, a osservare atrocità passate e presenti al suono di Young Americans di David Bowie. Spiazzato, ancora una volta, dall'impressionante talento di Lars von Trier.

 
 
 
 
 
 
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Commenti
 

I lettori hanno scritto 12 commenti

 
 
utente
ed le fou
  • indirizzo IP 82.49.177.157
  • data e ora Mercoledì 09 Novembre 2005 [12:51]
  • commento ma Picasso scomponeva le figure perchè aveva qualcosa da dire, non per nascondere una mancanza di idee. liberare l'ego non basta, altrimenti saremmo tutti artisti...
 
 
 
 
 
utente
Tetsuo
  • indirizzo IP 151.52.9.44
  • data e ora Mercoledì 09 Novembre 2005 [13:50]
  • commento Il concetto contenuto, secondo me, è sempre bene ribadirlo, anche perché per molti è tutt'altro che scontato. Poi certo, anche la forma deve piacere per apprezzarlo.
 
 
 
 
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