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A Dangerous Method
  • Contro Il pessimo metodo
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  • A favore La violenza della psicoanalisi
  • Sara Troilo Vs. Keivan Karimi
 
 
 
 
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A Dangerous Method

Ring del 13 01 2012

 
 
    Dati
  • Questo ring è stato letto 14489 volte
 
 
 
 
 
 
 
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Contro

Recensione contro

Il pessimo metodo

di Sara Troilo

Mai avrei creduto di andare al cinema a vedere un film di Cronenberg e restarne delusa, in questo caso, oltretutto, la delusione è surclassata dalla rabbia perché A Dangerous Method non è solo deludente, ma orribile. Mi si conceda una considerazione apocalittica ora: se al mondo non ci resta più nemmeno Cronenberg forse è il momento di preoccuparsi (di più).

La storia narrata dal film è quella della relazione tra Jung (Michael Fassbender) e Sabina Spielrein (Keira Knightley) che ha come spettatore e giudice Freud (un Viggo Mortensen piuttosto piatto). Ad un certo punto appare anche una macchietta, interpretata da Vincent Cassel: Otto Gross che applica il metodo “governo italiano” alle sue pazienti svelando il meccanismo di transfert e portandolo alle naturali conseguenze (in questo caso non la crisi economica, di quella soffre lo psicoanalista stesso). Il film scorre estremamente lento dopo un exploit iniziale piuttosto forte in cui la Spielrein sciorina a uno Jung - in setting analitico freudiano - le violenze subite dal padre e come queste l’abbiano portata a sviluppare un forte masochismo.
Keira Knightley è, nella versione doppiata in italiano, l’unica che abbia potuto vedere purtroppo, imbarazzante. La macchina da presa le sta incollata al viso mentre lei si smascella nel tentativo di rivelare allo psicoanalista ciò che ha subito durante l’infanzia, con il risultato di far pensare allo spettatore che sia tutto uno scherzo tanto è ridicola quell’interpretazione così smaccatamente ridondante, eccessiva e che fa da contraltare alla piattezza delle restanti sue - poche - espressioni.

Dopo questa apertura fortemente drammatica il film si sviluppa come un banale film biografico, basato su quel lasso di tempo della vita di Jung che, così ci mostrano, ha sposato una donna ricchissima, intreccia una relazione con la sua paziente Spielrein e approfondisce la conoscenza di Freud che lo invidia all’inverosimile per quanto è ricco. E la noia cala sulla sala, non un guizzo del regista, non un’apertura ad altre dimensioni, si rimane lì bloccati a Zurigo tra parole dette e scritte, incontri tra padri della psicoanalisi tra cui ogni tanto emerge questa tormentata figura femminile che supera la propria nevrosi, si iscrive all’Università e sviluppa teorie proprie poi approfondite da Freud come quella della pulsione di morte.

Una figura femminile importante, quindi, nel mondo tutto maschile della medicina e della psichiatria, nel mondo inventato da Freud dell’invidia del pene anche. Niente di tutto ciò però emerge dal film, l’unico riscatto che ha la figura della Spielrein è concentrato nel finale in cui la donna si prende una rivincita sull’ex amante presentandosi a casa sua in gravidanza. Sarebbe stato meglio vedere Jung geloso dei successi in campo medico della sua protetta e non del bambino che porta lei nella pancia, per dirla in un altro modo, ma l’unico momento di fastidio Jung lo prova per il fatto che la Spielrein si inserisce nel solco degli studi freudiani, lasciandolo solo con le sue aperture al metafisico. Il problema del mentore tradito dalla donna che ha plasmato e nient’altro, a quanto pare.

Questo Jung monodimensionale, con la sua barca, la sua villa, le sue relazioni extraconiugali con pazienti-colleghe, annoia e rasenta la fiction televisiva. Freud invece è ritratto come ossessionato dal denaro, circondato dai figli, ossessionato dai riconoscimenti della società e dell’ambito medico, tanto da bollare come eretico tutto ciò che si discosta dalla psicoanalisi così come l’ha concepita. Otto Gross è presentato come un patetico straccione che rincorre le donne. La Spielrein passa dallo smascellarsi all’accettare il proprio masochismo in un battito di ciglia. No. Questo non è Cronenberg. Mi manca, rivoglio indietro quello vero!
 
 
 
 
 
 
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A favore

Recensione a favore

La violenza della psicoanalisi

di Keivan Karimi

David Cronenberg, autore estroso e storicamente attratto dai lati più oscuri della psiche umana, si ritira in una sorta di meditazione estetica e visiva analizzando dal suo punto di vista sempre molto intrigante il rapporto triangolare di natura filosofico-sentimentale tra le due più grandi menti dell'Europa di inizio Novecento, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, e la giovane paziente (in seguito psicoanalista) Sabina Spielrein.
Provenendo da due thriller di natura prettamente violenta e cruda come History of violence e La promessa dell'assassino, l'autore riscopre una certa sofisticatezza nella regia di questo intreccio, così ben sviluppato ed ambientato con minuzia di particolari spaziali e temporali tra la Svizzera e l'Austria dei primi decenni del XX secolo; non c'è azione, non si sceglie di mettere i personaggi nelle mani dell'ambiguità di un'estetica surreale e crudele, bensì si tratta di un film basato sulla filosofia dei pensieri, è un confronto/scontro fra le due menti più importanti nel campo della moderna psicoanalisi.
L'intento di Cronenberg è di differenziare i caratteri di due studiosi, due uomini accomunati dallo stesso modo di agire nei confronti dei pazienti ma così diversi nell'essenza del loro pensiero e dei propri istinti.
Jung, interpretato dal lanciatissimo Michael Fassbender, è il soggetto giovane, curioso, di famiglia ricca, pulito ed ordinato, legato alla moralità delle cose ed ai sentimenti puri. Dall'altra parte c'è il già noto Freud, ruolo assegnato all'attore ormai feticcio di Cronenberg, ovvero Viggo Mortensen, così sicuro di sè, esimio, austero, negligente, dall'atteggiamento altezzoso, ormai certo di essere portatore sano della filosofia che cambierà il modo di pensare dell'uomo moderno. In mezzo a loro spicca la presenza di Keira Knightely, nei panni della giovane Sabina, ragazza russa di origine ebraica, inizialmente isterica e paranoica, che verrà curata da Jung col metodo freudiano della primissima psicoanalisi. C'è un triangolo fatto di dialoghi, epistole, incomprensioni, scontri verbali e persino esperimenti sessuali estremi, portato in auge dalla straordinaria enfasi dei tre protagonisti.
La violenza estetica dell'autore, già presente in suoi capolavori di tutt'altra matrice come Existenz o Crash, si sviluppa non tanto nei rapporti quasi burrascosi tra i personaggi, bensì nelle immagini crude di Sabina, presentata fin dalle prime sequenze del film così turbata nella mente e di conseguenza nel fisico, capace di esprimere una sorta di furia oppressiva nettamente visibile, il punto di partenza di una storia ideologicamente affascinante.

Cronenberg indossa i panni, nella sua regia precisa ed elegante, dell'uomo-studioso che non prende le parti nè di Freud nè di Jung, si limita ad analizzare i caratteri completi delle due anime a confronto, facendo spiccare l'importanza dell'esperienza fisica ed emotiva nella convinzione mentale dei due uomini. Jung, il più sensibile, oltre ad essere un filosofo brillante ed innovativo, rappresenta un uomo in balia delle passioni, delle emozioni proibite e del nervosismo, prova sulla sua pelle in maniera spietata ciò che descriverà nelle successive opere filosofiche. Il confronto tra i due è in realtà un elogio al binomio tra verità e teoria, tra ciò che è tangibile e tutto quello che nasce dall'energia mentale ma difficilmente testabile.
L'analisi, così forte ed ingombrante per le enormi tematiche trovate, porta lo spettatore non tanto a prendere le parti di Freud o Jung, ma a comprendere le distanze ideologiche tra i due, tra il filosofo austriaco così innovatore ma allo stesso tempo fermo sull'idea di non poter cambiare il mondo, mentre il suo comprimario svizzero si dedica anima e corpo al paziente, al soggetto, all'uomo analizzato per essere curato, non soltanto per essere messo di fronte alla dura realtà della vita.
Il film può risultare borioso e poco intrigante per chi ama l'azione, l'effetto speciale, l'emozione visiva, ma esteticamente si tratta di un progetto arduo e ben riuscito, un'analisi dialettica e storica ben consumata, una raffinatezza negli spazi e nei particolari che fa pendant con il vigore delle teorie messe in mostra.
Non sarà un thriller o un poliziesco hollwoodiano, ma A dangerous method merita grande attenzione per la forza emotiva dei suoi contenuti.
 
 
 
 
 
 
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