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Intervista

Speciale del 08 10 2006

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Speciale

Un cinema senza compromessi

di Roberta Folatti

- Se devo vivere facendo cinema di mercato, preferisco vivere facendo pubblicità. Il cinema per me conserva una sua sacralità. -

Questo é Francesco Fei, l'autore di Onde, film intimistico, dalle grandi doti visive, che ha ricevuto ottime recensioni (per un'opera prima) ma non ha potuto avere un vero confronto col pubblico. Ragioni di distribuzione. Fei ha scelto di essere molto indipendente dal punto di vista artistico, si è autoprodotto il film o quasi e questo l'ha pagato caro.
La conversazione con il regista toscano, trasferitosi da anni a Milano,  è lunga e interessante. E non manca la vis polemica.

Questo film ti ha dato qualche soddisfazione, oltre alle molte difficoltà?

Prima di tutto la soddisfazione di essere riuscito a farlo! E la stima delle persone che l'hanno visto. Poi la soddisfazione di aver girato il mondo, il film ha partecipato a dodici festival, da Rotterdam a Rio de Janeiro a Montpellier.
Ma festival veri, non quelli di cinema italiano all'estero creati apposta per "riciclare" i film che nel nostro paese non funzionano. Io non avevo nessun venditore per Onde, è stata una soddisfazione ma anche una frustrazione, perchè giravo il mondo ma non riuscivo ad uscire in Italia. Assomiglia un po' alla vicenda di Fame chimica, per quanto loro avessero già più contatti di me, più punti di riferimento.

Cosa ti ha insegnato questa vicenda?

Che bisogna agire diversamente. Innanzitutto mi ha indotto a fare un poco di autocritica, forse anch'io non ho avuto abbastanza coraggio per affrontare il cosiddetto potere, le persone che contano e che in Italia ti permettono di lavorare. Al di là di questo, sono convinto che si debbano cercare strade alternative. La mia è stata un'esperienza di totale libertà, ho fatto il film che volevo, ma una cosa così la puoi fare una volta sola nella vita. Poi devi imparare a confrontarti anche con chi il potere ce l'ha. Perchè se no rischi di fare un film, anche bello - il mio ha avuto buonissime recensioni - ma che non vede nessuno. Io non avevo dietro un produttore che poteva fare le telefonate giuste in Rai o nei salotti del potere, così alla fine non ho neppure l'homevideo nè la vendita Sky. Però conto di trovarli presto, e per il Dvd voglio una distruibuzione importante. Che si abbia almeno la possibilità di vedere il film così, visto che nelle sale praticamente non c'è stato. In Italia oggi la distribuzione è un monopolio a tre, Warner, Cecchi Gori (quel poco che rimane) e Circuito Cinema. Se non entri in questi giri, il tuo film non può uscire...

Sei molto pessimista nei confronti del cinema italiano...

Le colpe maggiori le hanno le famigerate leggi sui finanziamenti statali, ci sono stati anni in cui i soldi venivano dati a qualsiasi tipo di progetto, l'importante è che ci fosse l'appoggio politico. Non esisteva nessuna discriminante di merito, contava solo che ti sponsorizzava politicamente. Oggi che il finanziamento dello Stato si è ridotto notevolmente, i produttori devono tornare a fare il proprio mestiere, sbattersi per trovare i soldi da altre fonti, creare coproduzioni... Blandini, il direttore generale del settore Cinema,  che è un tecnico valido, si è inventato come discriminante per assegnare il finanziamento una sorta di punteggio. Da un lato va bene, perchè si premia il merito, ma dall'altra rischi che venga finanziato solo chi ha già fatto film e vinto dei festival. Però perlomeno ora esiste un criterio. Il problema è che il cinema italiano è malato da almeno trent'anni, se non quaranta. Da quando è morto il fatto che il cinema lo facevano i produttori, e anche fare cinema d'arte alla Antonioni era comunque un evento commerciale, da quando i produttori hanno puntato tutto sul finanziamento statale sono cominciati i problemi. Chi ti fa fare oggi un film come Deserto rosso? Non te lo fanno neanche cominciare, dopo due minuti te l'hanno levato di mano! Non che non fosse giusto il concetto di un finanziamento pubblico, ma non è mai stato portato avanti in maniera lucida e mirata, è sempre stato tutto legato a questa commistione becera con la politica. Così si è creata una struttura industriale con un'unica priorità: aggiudicarsi i soldi dello Stato. Non fare i film! E' un'industria malata, e sono davvero pochi i produttori che si occupano anche del valore artistico dei film.

Ma è poi compito del regista dedicarsi alla ricerca dei soldi? Il regista non dovrebbe pensare solo al lato artistico?

Penso di no, un film costa come minimo (escludendo i lavori in digitale) 500.000 euro, non puoi pretendere di metter su una "baracca" di questo genere e non avere la personalità di saperti vendere. Trovare i soldi fa parte del gioco, il regista non può rimanere nel suo limbo artistico.

Hai trovato difficoltà nel passare dai video e dalla pubblicità al lungometraggio?

In realtà io ho sempre pensato che la mia strada fosse questa. Sono laureato in Storia del cinema, nel 1988 ho girato il corto La persiana di ferro tratto da "La metamaorfosi" di Kafka che è andato subito in concorso al Festival di Torino. Poteva essere l'inizio di una carriera di regista, poi la vita prende pieghe diverse. Avendo la passione per la musica, mi sono avvicinato ai videoclip e quasi immediatamente è diventato un mestiere. Mtv mi considera uno dei più interessanti registi di clip, mi continua a dedicare rassegne monografiche, cosa che non fa quasi mai.
L'ultimo video che ho diretto è quello di Carmen Consoli, dal suo brano "Tutto su Eva", è venuto veramente bene, quelli di Mtv l'hanno visto e sono impazziti. Nel campo dei video musicali spesso ti capita di accettare lavori un po' "marchettari", ma questo è veramente bello. Lo dico essendo solitamente molto critico riguardo al mio lavoro. Comunque il mio errore è stato di aver speso tutte le energie nel campo dei video clip e poi della pubblicità, questo mi ha allontanato per molto tempo dall'idea del cinema.

Poi cos'è successo?

Finalmente nel '99 ho capito che era ora di riprendere il filo, ho avuto la fortuna di leggere il libro "Amore cieco" che mi ha dato il là, mi è piaciuto molto come storia. Conoscevo Anita Caprioli e ho pensato che potesse essere la persona giusta per interpretare Francesca. Lo spunto viene dal romanzo di V. S. Pritchett, ma la storia è riadattata, modernizzata. Fondamentalmente la grande differenza è che la protagonista ha una voglia sul viso, e non sul corpo. Oggi bisogna colpire forte per lasciare un minimo segno. Una persona solo se ha un difetto così esteriorizzato può avere dei problemi.
Passare al lungometraggio dunque è stata la cosa più naturale del mondo, anche se poi ho fatto dei bagni di umiltà, soprattutto quando ero alle prese con la scrittura della sceneggiatura. Se dal punto di vista registico e visivo ho avuto la conferma di essere portato, ho capito di aver ancora tanto da imparare dal punto di vista della scrittura.

Hai deciso di non servirti di professionisti per la sceneggiatura?

Uno sceneggiatore di professione non lo avrei voluto, finiscono per fare loro il film, ti tolgono libertà. Il cinema che io amo non si fa così.  Non dico di fare come Wenders, che partiva da due paginette e il film lo costruiva via via... quando hai pochi soldi questo non te lo puoi permettere. Ma neanche avere tutto strutturato, preciso. Un po' di vaghezza ci deve essere. Gli sceneggiatori di professione tendono a spiegare tutto, invece il cinema che amo è quello che spiega poco e che lascia allo spettatore il piacere di riempire da solo le parti mancanti.  C'è un film che per me è fondamentale, il primo di Roman Polanski, Il coltello nell'acqua: dialoghi inesistenti e tutto legato al mare, al vento, alla claustrofobia della barca. Quello è il cinema, quello che non mette lì l'attore a spiegare...

L'interpretazione dei protagonisti di Onde, Anita Caprioli e Ignazio Oliva, è molto intensa, come sei riuscito a comunicare loro ciò che volevi?

Avevo le idee abbastanza chiare e loro sono bravi, dunque è stato un lavoro di sintonia. Ignazio doveva anche fare uno studio tecnico sul suo personaggio, per via della cecità, per rendere credibile l'intero film, e questo forse ha minato in parte la possibilità di improvvisazione e invenzione. Anita trovo che sia stata ottima, il suo era un personaggio difficile, antipatico, con dei comportamenti esagerati rispetto al suo problema fisico. Lo spettatore doveva fare un piccolo sforzo per capire che il suo problema non era sulla sua faccia ma dentro la sua testa. Anita quindi recitava senza paracadute perchè non aveva nessun tipo di difesa empatica nei confronti dell'ipotetico spettatore.

Perchè hai scelto quel tipo di musica?

Venendo dai video musicali, penso che la musica sia un elemento fondamentale della creazione cinematografica. Kubrick diceva che le scene che più ti rimangono impresse non sono quelle dialogate, ma quelle in cui c'è la musica. Io amo un certo tipo di cinema in cui la musica non è accompagnamento, canzonetta ma vera colonna sonora, prendi i lavori di Herzog.  Volevo qualcosa che fosse coerente col significato emozionale e con lo spessore contenutistico del film. Siccome parlavo di un cieco, di onde, di frequenze ho voluto lavorare, più che sulla musica, su certe atmosfere sonore che potevano avere certi ambienti in cui i protagonisti si trovavano. Sono anche un appassionato di musica elettronica quindi ho cercato in quel campo.

Cosa dovrebbe fare Rutelli per il cinema italiano?

Io stimo Rutelli, il problema è che i referenti sono sempre gli stessi, arroccati ai loro posti. Rutelli deve ascoltare anche i giovani, ci vuole un rinnovamento generazionale. I film più interessanti degli ultimi anni, che hanno dato lustro all'Italia anche in campo internazionale, sono di registi giovani, Sorrentino, Marra, Garrone, Costanzo, Gaglianone, non ce n'è uno che superi i quaranta. E perchè nei centri di potere ci sono sempre gli stessi vecchi babbioni? Va scardinato il meccanismo assistenziale, ma la strada intrapresa da Rutelli è quella giusta.

 
 
 
 
 
 
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