- tipo Festival
- Michela Albanese
- Contro Il pessimo metodo
- A favore La violenza della psicoanalisi
- Sara Troilo Vs. Keivan Karimi
Venezia 63 - Omoni neri, accrediti inutili e cinesi veri (e poco seri)
di Vincenzo Rossini
3.09
Oggi vorrei spiegare il perverso meccanismo della programmazione, dal punto di vista degli accreditati. Abbiamo diritto a una proiezione per ogni film della mostra. Ovviamente, l'orario è prestabilito. Il primo scricchiolio di questa progettazione si deduce quando, sfogliando il programma, si scopre che due film in concorso, ossia gli attesi Children of Man e Bobby, non hanno proiezioni per gli accrediti. L'ufficio programmazione corre ai ripari, ed inserisce proiezioni addizionali. A mezzanotte. Ma non è finita qui. Fino all'anno scorso si poteva rimediare in extremis a un esaurimento dei posti in sala, dato che gli orari delle sale erano leggermente sfalsati. Quest'anno gli orari sono quasi totalmente coincidenti, perciò accade che non entrare ad una proiezione in sala grande significa automaticamente perdere l'opportunità di entrare anche nelle altre sale, perché a film iniziato gli omoni ti cacciano. Terzo punto, forse ancora più agghiacciante: alcune fasce orarie NON prevedono film per gli accreditati. Oggi, ad esempio, dalle 21.50 (orario di termine del misterioso cinese Do Over, unico film delle 20) a mezzanotte, non ci sono proiezioni. Per compensare questo buco, accade invece che, alla mattina, gli accreditati debbano scegliere per forza tra The Queen e Private Fears e il documentario Bellissime parte seconda. O i due o l'altro. L'ingiustizia, in questo caso, non è un qualcosa che capita per sbaglio o per la sfortuna (come non entrare in sala perché i posti sono esauriti). L'ingiustizia è premeditata e programmata, e ha le sue fondamenta nella convinzione che gli accreditati non fanno testo, che possano vedere quello o quell'altro film indifferentemente, tanto non pagano, non fanno cassa e non fanno nemmeno opinione pubblica. È una cattiveria autentica. Sono incazzato nero. I miei amici vanno a vedere The Queen e Resnais, e ne escono soddisfatti. Io ho visto Bellissime prima parte e mi sembra il caso di andare a vedere anche questa seconda. Ma Resnais e The Queen li dovrò vedere in sala, doppiati.
BELLISSIME SECONDA PARTE. DAL 1960 AD OGGI DALLA PARTE DI "LEI" di Giovanna Gagliardo
La scelta è coraggiosa: 180 minuti di documentario sulle donne nella vita politica e nel costume italiano dagli anni 60 ad oggi. Ho visto la prima parte, che arriva fino al dopoguerra, e mi ha lasciato soddisfatto. Era il caso di bissare. In attesa di Giovanna Gagliardo, in sala entra gente vestita troppo bene per essere le 10.45 di mattina. C'è qualche dirigente, forse Rai, qualche moglie di o compagna di. C'è Marina Ripa di Meana, gonfia di botox. Che c'entra lei a questa proiezione??? Mah. Finalmente, la Gagliardo. Che, oltre ad essere una grande donna di cinema e televisione (scopro dal catalogo che è la sceneggiatrice di tutti gli ultimi film di Miklos Jancso), è anche una signora affascinante e che veste con gusto. Toh, Marina. Inizia il documentario. Una lunghissima carrellata di immagini di repertorio preziosissime, fornite grazie a chissà quale compromesso da Istituto Luce e Teche Rai (misteriosi antri che qualcuno si ostina nel volere tenere segreti e privati, come se non contenessero la memoria collettiva globale di questa nazione). C'è sempre una voce fuori campo, che accompagna con ironico distacco ed eleganza il racconto per immagini. E che racconto: dalle prime donne in parlamento alla possibilità di prendere la patente, dagli «scandali» delle relazioni extraconiugali di personaggi mitici come Mina o Stefania Sandrelli, al '68, alle lotte per la legalizzazione dell'aborto e contro il referendum abrogativo, passando per conquiste sindacali importanti (come l'annullamento della vetusta legge che permetteva ai datori di lavoro di licenziare le operaie in maternità) e mutamenti del costume. Si arriva, senza fretta, agli anni 80, alla donna in carriera, al trionfo dell'effimero e della moda, alle donne in guerra, e poi agli anni '90, al riflusso, al ritorno al conservatorismo, alle donne ribelli al secolarismo della mafia, alle donne a Nassiriya, a Emma Bonino. Tanti volti, tante voci, sempre e in ogni caso, dalla parte di «lei». La Gagliardo evita di dare giudizi e si limita a raccontare; non solo: nel tentativo di scrivere una storia parallela delle conquiste delle donne sceglie di non raccontare i fatti storici nel loro complesso, ma di limitare il loro racconto sempre e comunque al punto di vista delle donne. Quindi il '68 (uno dei capitoli più belli soprattutto per la densità delle immagini di repertorio) non è il racconto generico delle proteste di piazza, ma è il racconto di come le donne hanno partecipato ad esso. Sembra una materia seria e pericolosamente ai confini della didascalia. E invece Giovanna Gagliardo spiazza spesso lo spettatore grazie ad un montaggio astuto ed ironico. Scorrono le immagini delle proteste anti-referendum abrogativo sul divorzio, e sono montate assieme al video di una conturbante Loredana Bertè che canta "Sei bellissima", con un'attenzione speciale nei confronti del testo della canzone, che diventa magico ed imprevedibile contrappunto alle immagini di repertorio. E lo stesso discorso vale quando, per raccontare le ambizioni di parità tutte anni Ottanta che portano le donne ad arruolarsi nel corpo militare, la Gagliardo utilizza il controverso e divertente video di Gianna Nannini "Hey Bionda". Felice della scelta fatta, nonostante la fatica delle tre ore - e l'ultima ora, quella che parla dei giorni d'oggi, è più debole delle altre due, forse perché veramente siamo in un epoca poco interessante - applaudo alla Gagliardo in modo, devo dirlo, scusate, me ne vergogno gagliardo. Mi guardo attorno: Marina Ripa di Meana è scappata, meno male. Altre donne applaudono entusiaste. I maschietti, pochi pochi. Sono le due, faccio pausa per mangiare un panino. Ahia, che tasto dolente. Come non bastasse, occorre fare la coda sia per fare lo scontrino, sia per farsi fare il panino. E, ovviamente, se hai preso anche da bere - perché, vuoi pure bere? - bisogna fare una coda aggiuntiva. Come, scusa? Vuoi il caffè? No, non va bene, quella è la coda per la birra. Per il caffè devi fare la coda lì, dall'altra parte. Velo pietoso sui prezzi. Velo pietoso sulla qualità. Veli pietosissimi.
JAKPAE (THE CITY OF VIOLENCE) di Seung-wan Ryoo
Un film orientale al giorno. Ricetta prescritta dal signor Marco Muller. In realtà di orientali oggi, in programma ce ne sono cinque. Ma può bastare questo coreano. Di che parla? Boh. L'inizio è un classico: cinque amici combinano una bravata e ne pagano le conseguenze, dato che vengono sotterrati nella sabbia. Giurano vendetta. E giurano di ritrovarsi, a distanza di vent'anni, nello stesso posto. C'era una volta a Seoul. A meno di vent'anni di distanza, si ritrovano ad ammazzarsi l'un l'altro. Perché? Non tutto è chiaro, la trama sembra solo un pretesto per far sì che i protagonisti si menino il più possibile. Uno di loro è una specie di magnate dell'industria immobiliare, cattivissimo. Ma il resto dell'intreccio, pardon, è di una futilità mostruosa. Molti combattimenti, alcuni francamente imbarazzanti. In una scena uno dei "buoni" si ritrova in una piazza mentre dalle strade affluenti arrivano bande di giovani incazzati. I guerrieri della notte. Ancora. Ovviamente lui, da solo, avrà la meglio contro tutti. La scena finale, poi, è un gioiello di plagio. Una carneficina che avviene in una sorta di casa del tè, con spade e palle di ferro, e pezzi di legno usati come armi. Vi ricorda qualcosa? Vi ricorda qualcosa che dovrebbe, a sua volta, ricordarvi qualche altra cosa? E se ci aggiungessi che la musica è un improbabile morriconata con trombe e cavalli scalcianti in salsa sud-coreana? Tarantino, ammettiamolo, ha fatto qualche danno. Io mi sono flagellato tutta la durata del film. Ovviamente in sala grande hanno applaudito "la genuinità e il dinamismo della rappresentazione del combattimento come metafora dello scontro sociale di un gruppo di ex-giovani che vedono i loro valori di amicizia e fiducia messa in crisi dal confronto con la crudeltà capitalistica del potere adulto". Dopo aver evitato Suely in the Sky, oggetto non ancora identificato, almeno dal sottoscritto, posso scegliere tra un cinese alle 20 e un cinese alle 21.45, dove però non ho la garanzia di entrare, dato che è solo per il pubblico pagante. Già, il pubblico pagante dovrebbe pagare 28 euro per questo cinese. Vedremo. Opto per il secondo, in sala dovrebbe esserci Zhang Yiyi.
YEYAN (THE BANQUET) di Feng Xiaogang
La sala è disperatamente vuota. Quasi ci pregano di riempire qualche posto. Ma accreditati se ne vedono pochi, solo un gran numero di cinesi. Entra Zhang Yiyi, bellissima e vestita con stile. Grande ovazione. Deve essere una vera diva in patria, una cinese che è riuscita a fare il ruolo da protagonista in un film sulle geishe, bella soddisfazione. Inizia il film. Si capisce da subito dove vuole andare a parare. Fotografia raffinatissima, scenografie elaborate e pittoresche, combattimenti con dettagli ripresi al ralenti, gocce di sangue che sembrano di vetro si infrangono sulla lama di una spada, musica tradizionale, un cartello iniziale che spiega la vicenda. Sul filone di Hero e La foresta dei pugnali volanti. Ma pari pari. Siamo nel 900 d.C.. La storia è inutile raccontarla. Avete presente l'Amleto di Shakespheare? Beh, è la stessa cosa. L'imperatore viene ucciso dal fratello che sposa l'imperatrice. Il figlio fa l'artista, scopre il fatto di sangue, torna, è incazzato. Mette in scena un'opera dove si racconta la storia di Bla bla bla. C'è pure un'Ofelia cinese che si uccide per sbaglio alla fine. Notevole. Ma perché sul catalogo nessuno cita direttamente, nemmeno come fonte di ispirazione, Shakespheare? Al 130esimo minuto trasaliamo tutti. Che palle. L'ennesimo danno di Tarantino. Sì, è ancora colpa sua. Perché se non avesse orgogliosamente sdoganato in Europa e negli States questo cinema, diciamo, fighetto, raffinato, coreografico e sontuoso, ma anche ripetitivo, estetizzante e gratuitamente cruento, gli stessi cinesi non continuerebbero a produrre roba del genere, confezionata appositamente per il gusto perverso degli pseudo-cinefili europei che si riempiono la bocca del loro amore per Zhang Yimou (e non sono coscienti dell'enorme divario che c'è tra Hero e il resto della carriera del regista). Scappiamo dalla sala, con la palpebre gonfie. All'uscita siamo invasi da un'orda di cinesi che svolazzano attorno a Zhang Yiyi, a questo punto sommersa. Una cinese alta un metro e quaranta, vestita anni Ottanta e con un microfono non proprio di ultima generazione mi propone un'intervista in inglese. Accetto. Domanda e risposta (in inglese, ma traduco per pigrizia):
Q: ti è piaciuto il film?
R: si, moltissimo
Q: cosa ti è piaciuto di più?
R: fotografia, regia, coreografie
Q: di che parla il film?
R: (attimo di pausa - ma come sarebbe?) è una versione cinese dell'Amleto Shakespheariano
Q: indecifrabile, capisco solo la parola actors
R: insignificante, uso solo molte volte la parole actors
Q: grazie tante
Usciamo. Dopo due minuti incontriamo la stessa giornalista. "Posso farvi un'intervista"? La spedisco dal mio amico che è costretto a rispondere a domande del genere "Qual è il tuo musical preferito?". La Cina è vicina, proprio qui dietro.
Cosa aspetti a diventare un utente registrato?
Queste funzioni sono abilitate soltanto per gli utenti registrati. Si possono votare i film ed esprimere opinioni su registi, attori o su qualunque altro aspetto riguardante le pellicole, si può commentare quanto scritto nelle recensioni e negli articoli e concordare o dissentire. Gli utenti registrati hanno inoltre accesso a molte altre funzioni personalizzate sul sito. Basta un minuto, registrati e fai sentire la tua voce.