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Venezia 63 - I giovani senza soldi ci salveranno
di Alice Trippolini
Eccoci qui al festival più amato del paese.
Come ogni anno, code per ritirare l'accredito, code per mangiare, code per vedere i film e code per entrare nel perimetro della mostra. Infatti, a rappresentare bene l'epoca della paranoia terroristica, siamo circondati da check point continui: dove ti giri vogliono controllare la borsa, anche se ti hanno perquisito un minuto fa. Poi però il primo giorno una pazza senza accredito è riuscita a salire fin su in sala stampa cercando di rubare un portatile. invece di aiutare il povero addetto che cercava di strapparle il pc, tutti hanno acceso le telcamere e scattato foto. Che bella immagine. Tralasciando i paradossi, parliamo dell'atmosfera. Fuori dalle sale, nei luoghi cool, c'è sempre la solita aria di frenesia, come se tutti avessimo sempre fretta. In giro si vedono i personaggi di sempre, molto rassicuranti: Marzullo con delle orribili scarpe da ginnastica, Patrizia Pellegrino che firma autografi senza un perché, Francesco Alberoni che da vicino è ancora più brutto e i politici di turno. Al posto di Buttiglione, abbiamo Rutelli e la sua scoppiettante consorte. Sarà anche più bello da vedere, ma quello che questi signori dicono comincia ad assomigliarsi in maniera troppo preoccupante. "Spegniamo le polemiche e accendiamo gli schermi - ha detto il ministro - non c'è nessuna guerra tra Roma e Venezia". Allora perché il periodo è lo stesso? "Rivedremo le date nella prossima edizione".
Intanto qui le presentazioni glamour sono poche, tutte a Roma. Neanche il buon Nicholas, che in World Trade Center sfoggia dei baffi allucinanti, ha avuto il coraggio di farsi vedere. Siamo dei reietti, soprattutto noi con l'accredito cinema.
Banditi da ogni proiezione decente e costretti a vedere i film in concorso a mezzanotte. Insomma, un'atmosfera tesa e un po' noiosa. Gli unici che si divertono sono i ragazzini autoctoni, cioé gli abitanti del Lido. Seduti davanti alla passerella per ore, rincorrono ogni persona vestita in modo decente pur di fare una foto. Ieri una ragazzina ha fermato una troupe con la videocamera chiedendo di essere ripresa, lei e la sua amichetta: "Che dobbiamo fare, cantiamo? Io so cantare, basta che mi riprendi". Il mio istinto materno se ne sta andando rapidamente. Parlando di film, Black Dahlia è un bel noir, Scarlett è incredibilmente sensuale, Aaron Eckart è bravo e la rivelazione Mia Kirschner è meravigliosa.
Il thailandese che ha vinto a Cannes qualche anno fa ha portato un film incomprensibile, vi giuro che anche Catherine Deneuve in sala si guardava le unghie annoiata e Cameron Crowe si rigirava sulla poltrona. Invece il Libro Nero di Verhoven fa schifo.
Mi prendo la responsabilità di dire che se si gioca con una fiction sul nazismo, mescolando buoni e cattivi da una parte e dall'altra e applicando un lieve revisionismo politicamente corretto, si è un po' avventati. E poi la sceneggiatura non fila, piena di buchi e di incongruenze. Speriamo nelle Giornate degli autori, che stanno dando molte più soddisfazioni: bello il documentario di Marra, il film Khadak e l'opera prima dello svedese Jasper Ganslandt. I giovani senza soldi ci salveranno, lo sento.
L'udienza è aperta.
Come recita il catalogo delle Giornate degli autori, sezione collaterale alla Mostra del Cinema di Venezia, il documentario di Vincenzo Marra L'Udienza è aperta inizia con una porta chiusa. Il giudice della sezione che deve presiedere la corte d'appello per un processo di traffico di droga trova il suo staff che attende fuori dall'ufficio: il portiere è in ritardo, come al solito. Dopo il ritardo, ci sono le mozioni della difesa e i buchi di calendario. Pur di concludere il processo la corte lavora anche il sabato mattina, ma non basta. Come spiega il giudice protagonista "La legge non è uguale per tutti, e ogni anno che passa è meno uguale". Vincenzo Marra, alla sua quarta regia dopo Tornando a casa e Vento di terra, firma un documentario asettico, obiettivo e non ripetitivo. Tema: un processo di appello ad alcuni esponenti di clan camorristi, seguito attraverso tre figure. Quella del giudice che presiede la Corte, il giudice a latere e l'avvocato della difesa, famoso per aver difeso molti appartenenti alla camorra. Il documentario attraversa il processo soffermandosi sui personaggi e facendoli parlare del proprio ruolo. In alcuni momenti è un po' lento e forse tecnico, ma ha parecchi pregi, tra cui quello di indagare il mondo della giustizia da dentro, soffermandosi sulle persone e sugli umori, piuttosto che sulle ideologie politiche. Certo, quelle ci sono e il regista ha il tatto di farle emergere attraverso le discussioni informali, davanti ad una colazione. Il giudice pensa che le donne debbano stare a casa, la giudice a latere crede nella libera scelta tra maternità e lavoro. Due ideologie opposte che si scontrano, ma che non si intromettono nel loro ruolo istituzionale.
"Le ideologie sono una cosa, il lavoro è un'altra", dice la giudice. Al contrario di quello che ci viene raccontato da molti personaggi che continuano a infangare il già precario mondo della giustizia. Che, da come si parla durante le riunioni, è più screditato dalle leggi recentemente emesse che tolgono sempre più il potere a giudici e magistrati, che non dai criminali. Non l'accusa, la difesa. Marra mostra sempre entrambi i punti di vista. L'avvocato della difesa parla della giustizia e dei processi, affermando con forza che "la società non si risana con in processi, ma intervenendo prima e cercando di evitare che i giovani non abbiano altra scelta che avvicinarsi al mondo della criminalità organizzata". Marra insite molto sulle dicotomie: legalità e illegalità, uomo e donna, accusa e difesa, mantenendosi sempre obiettivo e allontanandosi non appena c'è un'ombra di giudizio. Marra ha precisato come il tema del viaggio sia molto presente nei suoi film. "Il viaggio mi piace, lo spostamento fisico è una cosa fondamentale per me: anche solo un viaggio in auto". ll regista è apparso amareggiato riguardo alla situazione del cinema in Italia: "Sono orgoglioso di aver portato la mia città in giro per il mondo, ma Napoli mi ha dimenticato. I pescatori di Scampia hanno girato il mondo e io ne sono fiero, ma mi piacerebbe che si producessero più film e che quelli di qualità fossero più protetti. Non ci sono fondi per il cinema di qualità, mi fa male pensare che ci sono film girati con sole 500 euro".
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