- tipo Festival
- Michela Albanese
- Contro Il pessimo metodo
- A favore La violenza della psicoanalisi
- Sara Troilo Vs. Keivan Karimi
Venezia 63 - Lo sport preferito dal cinefilo
di Vincenzo Rossini
30.08.06
Metal-detector. Che parola metallica. Suono che evoca (im)mondi robotici e automazioni e cibernetica. Sono a Venezia. Alla mostra del cinema. Ci sono metal-detector dappertutto. Agli ingressi, alle uscite. Uscendo dal bagno ho sentito un bip, ho pensato «mio dio». Era il cellulare. Stamattina mi sono svegliato alle sette per vedere Black Dahlia. Coda colossale. Arrivato alla fine della coda ecco una staccionata di metal-detector. Quanti. L'imbarazzo della scelta. Però, prima di varcare le soglie del bip satanico, un omone mi chiede di lasciare la borsa. Pericolosa, voluminosa. Di là c'è il guardaroba. Perfetto. La stessa coda che si è appena smaltita si rigenera. Facce appesantite. Qualcuno si lamenta. Lascio la borsa, torno al mio metal-detector. Bip. Cacchio. «Ho la cintura metallica». Non importa. Sosta ulteriore per verificare la presenza di oggetti contundenti sul mio corpo. Niente da fare. Posso entrare. Domani vengo alla proiezione coi pantajazz.
BLACK DAHLIA di Brian De Palma
Anni '30. Lee Blanchard-Aaron Eckart e Bucky Bleichert-Josh Hartnett, due pugili poliziotti, si battono per scatenare le simpatie di un capo. In odor di promozione, Bucky lascia vincere Blanchard, rimettendoci i denti davanti, ma guadagnando una promozione al settore omicidi e un aumento. I due cominciano una lunga partnership lavorativa, e nel frattempo diventano amici. Cenano abitudinariamente a casa di Blanchard, coniugato con Scarlett Johansson, truccata maluccio. Iniziano i casini. Una donna viene trovata morta, conciata piuttosto male, tipo sventrata e sfigurata in volto. Chi sarà? C'è un po' di tutto nelle indagini: filmini a luci rosse in bianco e nero, imprenditori nazionalisti, una moglie fuori come un balcone, un giardiniere poco rassicurante, Hilary Swank che fa la femme fatale in un motel ma in realtà è ricchissima e dice un sacco di frottole
Tutto sfilacciato, pieno di buchi narrativi.
Sì, De Palma è un gran regista, i movimenti sono pura classe, la fotografia è avvolgente, le citazioni non si riescono a contare (e comunque le si dimentica). Ma il filo stenta a tornare, e la parte finale del film sembra avvertire l'urgenza di chiudere i conti con gli interrogativi aperti. Senza anticipare nulla, quando si scopre il mistero (perché si scopre? E quando?) dovrei sentirmi sollevato e provare quel sottile tremore che si prova quando un caso è risolto e l'assassino, ma guarda un po', l'avevi sospettato che era lui ma adesso ti era sfuggito di mente
E invece
invece qui il mistero viene risolto e tutto sembra ancora sospeso per aria, e giù a farsi domande, a dirsi «il libro non era così», «De Palma è il solito hitchcockiano non guarito», fino a «non ho ancora fatto colazione» o, quel che è peggio, «questo uso reiterato del piano-sequenza è tristemente demodè».
Alle 11, recupero la borsa. Tutto il Palabiennale (un tendone da circo) si riversa in coda. Non ho fatto colazione. Già.
Alle 11 e qualcosa, provo l'ingresso al documentario su John Lennon. Altro metal-detector, altro omone che vuole farmi lasciare la borsa. Non ho borse. Sorveglianza elusa. Alla mia amica Jessica va peggio. Arriva tardi e non entra. Ma ha la sua borsa. Io corro in sala grande, dove ad accogliermi c'è Power to the people.
THE U.S. VS JOHN LENNON di David Leaf e John Scheinfeld
Un discreto documentario di stampo televisivo che racconta dettagliatamente la lotta pacifica di John Lennon e della sua enigmatica musa Yoko Ono, tra bed-in di protesta e concerti improvvisati davanti a folle di gente con le dita al cielo. Nulla che non si sapesse già, per la verità, esistono molti altri documentari su Lennon, come Imagine del 1988, concentrato più sulla vita privata dell'artista che sulla sua attività politica. Qui però c'è un valore aggiunto ed è l'incredibile tensione che si crea tra immagini di repertorio e testimonianze significative dei personaggi agli antipodi, da Gore Vidal, che identifica in Bush e in Nixon il «male», nel senso assoluto del termine, all'agente FBI che sostiene le ragioni del suo gruppo. Bella la trattazione della vicenda di John Sinclair, estremista radicale incarcerato per possesso di marijuana e scarcerato dopo un "appello globale in forma di musica" scritto da Lennon, così come la ricostruzione dei tentativi del governo Nixon di cacciare Lennon dagli Stati Uniti. Convince di meno l'accenno alla morte dell'artista, che sembra quasi una parentesi, da non omettere ma nemmeno da approfondire. Il meglio, però, è la musica: avrò ascoltato quasi una trentina di pezzi fantastici, spesso a commento di immagini significative o di affermazioni perentorie.
Pausa pranzo. Vorrei vedere il film di De Seta, ma la fame vince.
Alle 17, si va a vedere Infamous. Stavolta si dimenticano di frugarmi nella borsa e faccio tantissimi bip ma nessuno mi ferma. Quasi quasi torno indietro.
In sala, Sandra Bullock, anche lei truccata male, stiracchia un sorriso. L'altro attore, Toby Jones, per ora sembra solo il clone di Truman Capote.
INFAMOUS di Douglas McGrath
La vicenda della nascita di A sangue freddo, capolavoro di Truman Capote, è appena stata raccontata in Capote, piccolo film indipendente miracolosamente approdato alla notte degli Oscar. Io, però, non l'ho visto perciò mi è tutto nuovo. Mi avevano parlato di un'interpretazione contenuta del mitico Philip Seymour Hoffman. Qui siamo in tutt'altra zona. Toby Jones fa un irresistibile Capote, appariscente e vanitoso, logorroico e pieno di bizze. Circondato da un gran numero di donne di classe che se lo dividono e lo usano come sfogo personale - a scapito della privacy, per forza di cose Capote doveva essere un gran chiacchierone - Capote cerca un punto di vista alternativo alla cronaca per raccontare di un fatto di sangue avvenuto nel Kansas. Ma quale punto di vista riuscirebbe a scappare dalla mania voyeuristica degli appassionati di gialli e cronaca nera e riuscirebbe a dare dignità psicologica ai protagonisti di quello che, comunque, è un romanzo? La domanda se la pone Capote e a poco alla volta me la pongo anche io guardando il film. Capote si reca sul luogo del delitto e cerca, gradualmente, di tracciare un profilo delle vittime ascoltando le testimonianze dei compaesani. Ma non è abbastanza, occorre altro. Allora, tramite arguti stratagemmi, riesce ad entrare in carcere e a parlare coi due assassini. L'obiettivo, ossia cogliere la natura profonda del gesto omicida, sembra di facile raggiungimento; Capote tuttavia si scontra con l'ostracismo e la durezza di uno dei due assassini, Perry Smith, una specie di "cattivo buono", capace di massacrare una famiglia ma anche di lamentare un bisogno enorme di affetto. E qui il film diventa superiore, passando dai toni di una convenzionale ma gradevole commedia biografica, a quelli di un film drammatico incentrato sul legame complesso che si crea tra questi due protagonisti. Fino al finale, dove arte e amore si intersecano, dove la solitudine viene sconfitta, seppur in modo laconico, dalle note di un registratore "che non si sa come sia arrivato fin lì", dietro le sbarre. Toccante eppure dosato nei toni e nei modi, nonostante l'esuberante interpretazione del protagonista, Infamous è un film che, probabilmente, meritava il concorso principale; efficace nel mostrare il dilemma tra invenzione e rispetto per la vita umana di cui si racconta, ed è allo stesso tempo riflessione accorata sul ruolo di un intellettuale atipico come Capote nella cultura americana del dopoguerra. Nota di merito per Sandra Bullock, contenuta e insolitamente drammatica, nel ruolo della scrittrice Harper Lee, l'autrice del best-seller da cui fu tratto il film Il buio oltre la siepe con Gregory Peck. Per una volta, ha scelto di fare un buon film.
01.09.06
La fila è un animale strisciante, lento e pesante nel suo non incedere. È come una lucertola: se entra qualcuno e si accorcia, le ricresce la coda. Appunto. A Venezia in coda ne puoi sentire tante, dal cinefilo scatenato che inveisce contro il «cinema segreto russo» perché «il cinema russo è ben altro», al "veterano" che inveisce contro la sicurezza perché «sono vent'anni che non mi succedeva di non entrare a una proiezione», passando per matricole della mostra che inveiscono contro l'organizzazione, reporter stranieri che inveiscono contro l'abitudine tutta italiana di far entrare a film iniziato, assatanati di vipperia che inveiscono perché l'attore/attrice di turno non gli ha fatto l'autografo, e giornalisti che inveiscono contro il film appena visto. Inveiscono tutti, in pratica. Ma nessuno lo fa con violenza; ogni tanto ci scappa un po' di scortesia, ma il tono generale è quello di una critica fatta con sufficienza a tutto e a tutti, specie a quei film che a un primo impatto non colpiscono, non convincono e non coincidono con le aspettative, e forse non convinceranno mai. A Venezia tutti siamo critici, almeno per hobby. Almeno perché tutto quel tempo in fila ad aspettare, di cosa parli?
SANG SATTAWAT (SYNDROMES OF THE CENTURY) di Apichatpong Weerasethakul
Visione estrema. Già Tropical Malady, film precedente premiato a Cannes e distribuito in qualche sala italiana, utilizzava un linguaggio inedito, dove le parole sono fortunatamente sottomesse alla potenza delle immagini, dei corpi, dell'ambientazione. Qui Weerasethakul - nome impronunciabile - si spinge oltre. Ci sono due film che parlano di due ospedali diversi, con gli stessi dottori.
Nel primo siamo in una piccola località campagnola, e si tratta di un ospedale sui generis, dove gli stessi dottori preferiscono meditazione e conversazione a terapie farmacologiche, dove un dentista si svela cantante di country tailandese (??), e pazienti e infermieri giocano a pallavolo mentre un gruppo di infermiere assiste immoto. E poi c'è un'eclisse. Bellissima. Astratta. Il secondo ospedale assomiglia invece molto di più ai nostri ospedali più tecnologizzati: siamo nel centro di una grande città e le patologie aumentano, i medici prescrivono farmaci senza indugi, bevono alcolici nei sotterranei, alla meditazione si sostituisce la ginnastica più innaturale. Tutto sembra inquinato, malsano, pesante. Sembra di essere in un cantiere. La luce del sole che nel primo ospedale filtrava ovunque, è scomparsa. Qui solo tanti neon. E il dentista non potrebbe mai cantare al suo paziente: è coperto e sigillato in ogni parte del suo corpo. E non c'è più l'eclisse: al suo posto un buco nero inquietante e misterioso che per diversi minuti paralizza lo spettatore. Una via originale per rappresentare le "sindromi del secolo", senza l'obbligo del racconto, sostituito qui da piccoli eventi che si ripetono identici nella prima e nella seconda parte. Un occhio "altro" per parlare del rapporto tra l'uomo e il suo corpo, tra la natura e la tecnologia, nel momento in cui la seconda si sostituisce con tutto il suo essere "artificiale" alla ricchezza spropositata della prima. Un film sicuramente difficile, immobile nel suo dichiarato disinteresse per la narrazione, anche se, in fondo, un filo narrativo c'è ed è ciò che più differenzia questo film dalla video-arte. Tanta astrazione, ovviamente non ha giovato al pubblico. In sala col regista e il cast si era in una trentina di persone, tutte scontente tra l'altro. Bisogna riconoscere che una visione del genere richiede un impegno spropositato e continuo e soprattutto la rinuncia all'idea di "risoluzione della storia", perché qui, di risoluto, non c'è nulla. Solo sensazioni.
DARATT (DRY SEASON) di Mahamat-Saleh Haroun
Al terzo giorno di Mostra, l'animale si ingrossa sempre più. Oggi abbiamo fatto una coda chilometrica per vedere un film del Ciad, un paese africano che non aveva mai presentato un film alla mostra di Venezia. Un omone ci ha avvertito: è inutile che aspettate, è tutto pieno. Infatti: siamo entrati tutti. E abbiamo visto un bel film, essenziale e sottilmente poetico. Si intitola Daratt, ossia Dry Season (Stagione secca) e chissà se sarà distribuito in Italia. Racconta una storia molto semplice. Un vecchio cieco incarica suo nipote di trovare l'uomo che ha ucciso suo figlio e di fare vendetta. Il ragazzo sembra implacabile, negli occhi gli si legge cattiveria. Trova l'uomo, e fin dal principio entra in conflitto con lui. Si fa assumere come panettiere da lui, in attesa di vendicarsi. E nel frattempo, impara a fare il pane. Poco alla volta, l'uomo si lega al giovane, ignaro della sua origine e del motivo per cui è lì. Il ragazzo lo assiste, seppur controvoglia, perché, pur odiandolo, in qualche modo lo rispetta e non vuole farlo soffrire. Un giorno l'uomo chiede al ragazzo di diventare suo figlio. Il ragazzo rifiuta, inasprito da questa richiesta. Ma alla fine ci sarà un confronto tra il nonno, il nipote e il padre-acquisito e killer. E il ragazzo saprà scegliere una mediazione tra umanità e orgoglio. Dieci minuti di applausi meritati: il film rivela una sensibilità che deriva direttamente dall'essenzialità con cui è girato. I dialoghi sono ridotti all'osso e al necessario, dove è possibile un'insegna o una scritta su un muro spiegano molto più di tante parole. Lo stile è povero, ma è una povertà che nobilita, esalta. Il deserto, la città, l'aridità. E poi il pane. L'elemento base. Spero che questo film riceva qualche giusto premio, anche perché sarebbe l'unico possibile mezzo per poterlo distribuire. Al momento, è il miglior film in concorso che ho visto.
I lettori hanno scritto 8 commenti
- indirizzo IP 151.38.135.241
- data e ora Martedì 12 Settembre 2006 [17:39]
- commento che film "da festival" il ritorno! che penniche! :)
- indirizzo IP 82.53.129.248
- data e ora Martedì 12 Settembre 2006 [20:12]
- commento veramente a me il ritorno era piaciuto un sacco.. e non ho dormito.. che stia diventando un'intelluettuale? però Quei loro incontri di Straub è tremendo!
- indirizzo IP 82.53.129.248
- data e ora Martedì 12 Settembre 2006 [20:13]
- commento Scusate: "un intellettuale"
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