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Incontro con Luca Lucini
di Roberta Folatti
Il cielo a portata di cinepresa
Ha studiato sociologia ma da sempre subisce il fascino del cinema. E' stato uno dei registi di videoclip più ricercato dai pezzi da novanta del nostro panorama musicale, Ligabue e la Pausini in testa. Poi tanta pubblicità ma il vero sogno nel cassetto era la pellicola e la possibilità di raccontare storie che non si esaurissero nello spazio di pochi minuti. Con Tre metri sopra il cielo ha fatto vivere i personaggi del libro cult degli adolescenti italiani, ma forse il libro è diventato un cult proprio grazie al suo film. Abbiamo parlato a lungo con Luca Lucini, regista anche della commedia L'uomo perfetto.
Il fatto che vieni dalla pubblicità e dai videoclip ha dato un'impronta particolare al tuo modo di fare cinema?
Di sicuro mi ha aiutato molto il fatto che in pubblicità, e anche nei video, devi sempre trovare il momento chiave, la scena fondamentale per descrivere un'emozione, devi saper narrare una storia in pochissimo tempo. Perciò ogni inquadratura deve significare qualcosa e questo evita il rischio di fare film noiosi. Inoltre essendo abituato ad arrivare sempre al dunque e a rinunciare alle scene e alle belle immagini girate ma che non servono al racconto, posso fare tranquillamente a meno delle cose non necessarie, senza soffrirne troppo. Vedo molti miei colleghi registi che invece fanno una fatica incredibile a tagliare alcune scene.
E dal lato opposto, abituato alla velocità degli spot, non hai trovato troppo lento il mezzo cinematografico?
Assolutamente no. Ho sempre fatto un tipo di pubblicità narrativo, che voleva raccontare emozioni e personaggi e finalmente mi è stata offerta la possibilità di sviluppare una storia. E non essere costretto a tagliare una carrellata o un'inquadratura lunga non rappresenta certo un problema anzi!
Ma quanto conta la bella immagine nei tuoi lavori?
Conta se è finalizzata, se aiuta a narrare la storia. Un'immagine bella fine a se stessa può essere quasi controproducente.
Nella pubblicità la forma è praticamente l'unico contenuto, nel cinema invece la priorità è della storia e degli attori. La bellezza della location ha senso se giustifica il carattere del personaggio. Ne L'uomo perfetto la regia era veramente neutra, era tutta in funzione del coinvolgimento degli attori, del realismo degli attori dentro la scena.
Ricollegandomi sempre ai tuoi lavori passati, immagino che la musica sia tuttora importante
David Rhodes, il chitarrista di Peter Gabriel, ha fatto un lavoro eccezionale ne L'uomo perfetto, gli inglesi hanno una cultura diversa della commedia. Ha saputo portare uno sguardo innovativo. Gli avevo chiesto di commentare musicalmente lo stato d'animo della protagonista, cioè esprimere allegria, malinconia, gioia, tristezza attraverso la musica. E lui ha fatto esattamente questo, con la stessa declinazione musicale ha sottolineato tutti gli stati d'animo. In casi come questo la musica diventa veramente inscindibile dal film. La musica in generale è sempre fondamentale per creare l'atmosfera, è una componente che ha la stessa importanza della scenografia, dei costumi, degli attori.
Ma in base a cosa la scegli?
In base al mondo che voglio raccontare, per esempio nel primo film, Tre metri sopra il cielo, avevamo l'esigenza di far sognare i giovani e i giovanissimi e le musiche spesso sono emotivamente forti. Invece nel secondo film la musica non doveva mai essere prevaricante rispetto alla scena, doveva essere più neutra, più appoggiata alla singola emozione.
A proposito di Tre metri sopra il cielo, si può tranquillamente affermare che gli spettatori giovanissimi siano stati completamente rapiti dal film. Sei riuscito ad entrare nella loro idea di romanticismo o in qualche modo l'avete creata voi questa idea, tu e l'autore del libro?
Sicuramente a monte c'è il libro che era molto sincero. Moccia ha raccontato una sua emozione, un suo primo grande amore, romanzandolo. A quella età il primo amore è sempre romanzato, le emozioni, essendo la prima volta che si provano, sono tutte ingigantite. Così com'è ingigantita, l'emozione del primo amore è anche fragilissima, sfiorisce in un batter d'occhio, senza un vero perché.
Noi abbiamo studiato queste cose e abbiamo cercato di vederle con gli occhi di un ragazzino. E' la ragione per cui il film assomiglia a una favola, con anche tutte le banalità del caso, se vogliamo chiamarle così. Sono banalità studiate per far emozionare una generazione che nessuno fa emozionare. Ormai nella realtà i giovani e i giovanissimi sono solo merce, gli si comprano cose, senza la volontà di farli emozionare.
E' innascondibile che Tre metri sopra il cielo sia stata un'operazione a monte su un target specifico che è quello che va molto al cinema ed è abituato a vedere prodotti americani, con mostri, sgozzamenti e cose del genere. Il libro si narra che girasse in fotocopie in una cartoleria di Roma. Era stato tirato in 2000 copie e una volta andate esaurite, c'era questo negozio che le riproduceva. Riccardo Tozzi, il produttore, l'ha trovato per caso. L'ha letto, anche su suggerimento della nipote, e si è detto "è quello che stavo cercando". Tre metri sopra il cielo era diventato un piccolo cult, ma limitatamente alla zona di piazza Euclide, Roma nord, Riccardo ha comprato i diritti del libro e l'ha fatto uscire di nuovo poco prima dell'uscita del film. Quindi nella realtà il libro non sarebbe mai esistito senza il film. Poi si sono spinti a vicenda.
Ma è nato tutto come operazione commerciale sui teen-ager o è stata una cosa più sentita?
La volontà era quella di fare un film rivolto ai teen-ager, settore molto trascurato. Quando mi è stato affidato il progetto ho pensato che aveva un senso fare un film per i giovanissimi, non sui giovanissimi. Esistevano già vari film che analizzavano i teen-ager, in certi casi quasi demonizzandoli, come Elephant.
Non era questa la nostra intenzione, noi volevamo fare un film per loro, in cui loro si immedesimassero il più possibile. Abbiamo studiato le percezioni che hanno i giovani di quell'età delle prime emozioni, del rapporto coi genitori, con la scuola, con le amicizie. Siamo entrati nel loro mondo, parlando con loro, capendoli. Mi ha facilitato il fatto d'aver studiato sociologia all'Università. Ho potuto cogliere alcuni codici legati a quell'età, che nel film abbiamo ingigantito, esagerato. E' tutto volutamente esagerato, lui è davvero il Cavaliere Nero con la sua moto, lei è l'Eroina Romantica. Sono gli stereotipi adattati alla loro età e alla loro percezione. Si voleva calcare la mano sulla favola, c'è la scena del castello, quella del primo bacio, è tutto molto romanzato. Ma è ciò che loro si immaginano, il modo in cui percepiscono le cose. Per me è stato molto interessante questo lavoro di preparazione e, naturalmente, anche la successiva realizzazione del film.
Dai commenti del pubblico di teen-ager, dall'enfasi che ci mettono, si capisce che avete proprio colpito il loro immaginario.
La cosa divertente è che questo film fa impazzire i ragazzini dai 12 ai 17, fa "cagare" la fascia dai 20 ai 30, e dai 33 in poi interessa di nuovo, perché lo vedi con la maturità e ti riemoziona. Erano cose che avevamo previsto e che hanno coinciso esattamente con ciò che poi è stato.
Mi viene in mente il parallelo con un altro film che è piaciuto molto ai giovanissimi, Fame chimica, però assai diverso come approccio al loro mondo
Fame chimica mi è piaciuto moltissimo, e tra l'altro sono amico di Antonio Bocola. Lì c'è la realtà, una realtà dura che scatena un altro tipo di immedesimazione. Mentre Tre metri sopra il cielo doveva far sognare, Fame chimica fa incazzare, ti fa venir voglia di cambiare le cose, di uscire, di evadere.
Con che spirito ti sei avvicinato al mondo degli adolescenti?
La prima volta che ho letto il libro, dopo le prime trenta pagine, ho pensato: ma questi son pazzi a volerci fare un film! Ma poi inizia la storia d'amore vera e propria che ti prende, ti emoziona e ho capito lì le potenzialità della trama. Raccontare, pur con tutti i canoni e gli stereotipi, il primo amore è una cosa forte. E' venuto una specie di Tempo delle mele italiano.
C'è qualcosa che lo rende prettamente italiano?
Il libro ha proprio una caratterizzazione di quartiere, quello che ho voluto fare io è renderlo più generico, un po' più universale. E forse l'operazione è riuscita, perché so che ci sono molte ragazzine di origini sudamericane che hanno il poster di Tre metri sopra il cielo appeso in camera.
Passando al tuo secondo film, L'uomo perfetto: è un'istantanea dei rapporti di coppia di oggi?
Non era quella la volontà, però inevitabilmente, raccontando una storia di rapporti d'amore un po' complicati e volendola attualizzare, è diventato anche questo. Oggi il rapporto uomo-donna è sicuramente in fase di cambiamento, le donne non si ritrovano più nel ruolo che l'uomo ha assunto e viceversa. Nessuno è più soddisfatto al 100%. Volendo rendere il film contemporaneo, siamo incappati in questa descrizione che secondo me risulta oltremodo attuale.
E' una situazione stimolante da fotografare?
Sì perché il pregio della commedia è di raccontare con leggerezza, però in seconda analisi far riflettere. Il nostro film non ha alcuna pretesa di insegnare qualcosa, però rispecchia molto la realtà. Non c'è un personaggio che abbia un rapporto d'amore lineare, è tutta una giostra di sensazioni ed emozioni, che è realistica e in cui la gente si è ritrovata.
E' visto dal punto di vista femminile, come ci sei riuscito?
Ha fatto un bellissimo lavoro Francesca Inaudi, la Lucia del film, la protagonista, e nello stesso tempo risulta credibile la figura di Giampaolo, un personaggio in cui tutti noi uomini "mezzecalzette" di quest'epoca non facciamo fatica a riconoscerci. Facendo funzionare i due personaggi principali, e anche quello di Antonio, alla fine i conti tornano.
Quindi hai avuto un buon feedback con gli attori?
Come sempre la commedia quando funziona è molto basata sulla scrittura e sugli attori, una volta che abbiamo trovato il cast giusto io ho chiesto loro di calzare i personaggi su se stessi, in modo che non potessero essere più divisi.
E' impossibile pensare ad Harry ti presento Sally senza Billy Cristal o Meg Ryan, a Colazione da Tiffany senza Audrey Hepburn o a Pretty Woman senza Julia Roberts. Quel personaggio si identifica con quell'attrice. Per sempre. Quando una commedia riesce, succede così. Io ho chiesto ai miei attori una cosa del genere e loro l'hanno fatta egregiamente.
La fine del film però è prevedibile, si può intuire già dall'inizio
Assolutamente sì, perché la commedia non è un giallo. In A piedi nudi nel parco o in Colazione da Tiffany sai dal primo momento che i due protagonisti si innamoreranno, ma non per questo ti annoi. Vuoi comunque vedere come andranno le cose. Fa parte del genere. Io sono molto rispettoso di questo genere, lo considero uno dei generi principe del cinema. E anche uno dei più difficili, per questo mi è piaciuta la sfida.
Non è facile fare una commedia romantica senza cadere nell'eccessiva mielosità, prevedibilità o banalità, bisogna trovare dei ritmi, un equilibrio.
Infatti. Io ho scritto una specie di lettera indirizzata a tutti, dal direttore della fotografia allo scenografo agli attori, sulla ricerca di questo equilibrio. Prima di girare mi sono guardato centinaia di commedie, in quelle veramente riuscite c'è un equilibrio magico tra musica, attori, scrittura, personaggi minori. Non c'è un personaggio minore che non funzioni. E' un aspetto che io ho curato molto, ho voluto che anche i personaggi più marginali fossero interpretati da bravi attori. Comunque la commedia è un genere veramente difficile.
Parliamo della scelta di girare a Milano: è stata una cosa che hai voluto fortemente?
Sì, assolutamente, ho lottato molto per girare il film a Milano e ho dovuto rinunciare a una settimana di riprese. Avevo previsto una durata di otto settimane ma per farlo a Milano ho dovuto impiegarne solo sette, perché è più costoso. Milano non mi ha aiutato più di tanto dal punto di vista burocratico, è stato difficile per i permessi, per l'organizzazione. Però era una storia che andava assolutamente girata nella mia città, per la psicologia dei personaggi, per il tipo di coinvolgimento sentimentale, tutto aveva caratteristiche più milanesi. Alla fine è stata una scelta di cui non mi sono affatto pentito.
Quindi dal punto di vista delle facilitazioni Milano è chiusa?
E' brutto dirlo ma del cinema a Milano non importa a nessuno. E' tutta moda e design: per loro porte aperte, fanno ciò che vogliono. Per il cinema porte sbarrate.
Però di solito il cinema stereotipa Milano in modo insopportabile.
Questo succede perché raramente Milano è descritta da milanesi, prendi i Vanzina. Così inevitabilmente Milano gronda di luoghi comuni. Oppure si sceglie di raccontare la Milano grigia, cupa, la città delle tensioni sociali, della solitudine. Ma non tutta Milano è così.
Quella descritta nel mio film è una Milano sì grigia e un po' triste, ma anche colorata e vivace com'è nella realtà. E' chiaro che se la paragoni alla Milano di Fame chimica è tutta un'altra cosa, la Milano che racconto io è quella benestante, i personaggi sono una direttrice operativa di un'agenzia, un avvocato. La mia e quella di Bocola e Vari sono entrambe realistiche, ma descrivono ambienti completamente diversi.
Tornando al discorso delle commedie, in Italia si sanno ancora fare secondo te?
Secondo me uno solo le sa fare ed è Paolo Virzì. Lui possiede proprio lo spirito della commedia all'italiana, della leggerezza con risvolti amari.
E in generale come vedi il panorama cinematografico italiano?
Un piccolo cambiamento in atto io, ottimisticamente, lo vedo. Ci sono autori nuovi forti, come Sorrentino, Crialese. Ci sono registi a cui la gente comincia ad affezionarsi come la Comencini, Salvatores, Virzì. Qualcosa pian piano si muove. Manca un po' il sistema. Per qualche anno erano tutti dei Pasolini, si facevano film che nessuno andava a vedere, grazie anche ai finanziamenti pubblici. Ora le case di produzione hanno un gran bisogno di gente che vada al cinema, quindi finanziano progetti che portino pubblico in sala, e questo può aiutare a fare anche cose un po' più ambiziose dal punto di vista culturale.
Ma secondo te ci sono possibilità di esprimersi per i giovani autori, c'è una qualche sensibilità produttiva?
Io sono a contatto con l'unica realtà che forse permette questa cosa, la Cattleya. Sono produttori abbastanza illuminati in questo senso, traggono film dai libri, danno fiducia ad attori nuovi (io ho "trovato" Riccardo Scamarcio che loro hanno messo sotto contratto e stanno facendo lavorare a livelli sempre più alti), vanno a cercare i registi. Fino a qualche anno fa era impensabile che un produttore venisse a cercare un regista pubblicitario, con me è successo e forse è un segnale che qualcosa sta cambiando.
I tuoi progetti futuri?
C'è un romanzo australiano a cui stiamo lavorando per trarne la sceneggiatura, è una storia molto bella, molto più drammatica e intensa rispetto alle cose che ho fatto finora. E' una sfida nuova che mi sta coinvolgendo. Racconta di un uomo che ha una grande difficoltà nella vita e poi, grazie ad un amore, riscopre il piacere di tornare a vivere e sognare. Di più non posso dire
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