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Venezia 62 - A posteriori
di Piervittorio Vitori
Müller anno secondo: dopo le critiche di cui era stato fatto oggetto l'anno scorso, il confermato direttore del Festival di Venezia quest'anno pare sia riuscito a non uscirne con le ossa rotte, nonostante le polemiche della vigilia. Si era parlato di una giuria non sufficientemente qualificata e perciò manipolabile, di inevitabili problemi organizzativi dovuti alle misure di sicurezza, di un cartellone non all'altezza
Alla fine sembra che, se pure questa 62° edizione non è stata esaltante, non si possa gettare la croce addosso al direttore.
I titoli del programma, si è detto, non possono che riflettere l'attuale stato dell'offerta, ed alla luce di questo non ci si dovrebbe strappare i capelli per un concorso che non ha offerto opere in grado di far gridare al capolavoro. Se l'anno scorso si era arrivati al rush finale con la convinzione che difficilmente i premi maggiori non sarebbero finiti all'interno del quadrilatero Vera Drake - Mare dentro - Ferro3 - Le chiavi di casa (e così è stato, a parte la "sconfitta" del film di Amelio), quest'anno la situazione è stata decisamente più incerta. Good night and good luck è stato l'unico film capace di mettere veramente d'accordo pubblico e critica; ma allo stesso tempo molti, pur apprezzandone la messa in scena e lo slancio idealistico, avevano trovato qualche titolo da preferirgli.
Così, con il passare dei giorni, c'è chi ha indicato auspicato come favorito Les amants réguliers (omaggio-reperto della nouvelle vague), Persona non grata (con eminenti personalità del nostro mondo politico a fare il tifo per il cattolico Zanussi), Mary (non troppi ma molto convinti i fan di Abel Ferrara), Garpastum (anche lo sguardo autoriale di German jr. ha trovato i suoi sostenitori, pur con un'opera inferiore al precedente The last train), La bestia nel cuore (irriducibile patriottismo nei confronti di un film che comunque, se confrontato ad altri titoli nostrani, si è difeso bene).
Alla fine però l'ha spuntata, per la gioia del sinologo Müller, l'Ang Lee di Brokeback Mountain, con Ferretti e colleghi di giuria capaci di sorprendere il popolo festivaliero senza però scandalizzarlo troppo. Per quanto stilisticamente convenzionale, il film non è affatto da buttare, anzi, e comunque è parsa chiara, anche alla luce degli altri premi, l'intenzione di premiare pellicole pervase da tematiche forti: l'omosessualità dei cowboys di Lee, appunto, le utopie sessantottine di Garrel (Leone d'Argento), i dilemmi religiosi di Ferrara (Premio Speciale della Giuria), i drammi famigliari della Comencini (con la Coppa Volpi assegnata alla Mezzogiorno che è parsa un contentino dovuto al cinema di casa nostra).
Il favorito Clooney si è così dovuto accontentare della meritata Coppa Volpi al suo protagonista, David Strathairn, e dell'Osella per la migliore sceneggiatura, mentre quella per il miglior contributo tecnico è andata all'ottimo bianco e nero di William Lubtchansky, direttore della fotografia di Les amants réguliers.
Sono tornati così a casa a mani vuote maestri riconosciuti o figure di culto quali De Oliveira, Kitano, Gilliam, Botelho ed il citato German jr., i cui film comunque non hanno certo riscosso unanimi consensi, mentre la simpatia del pubblico si è manifestata col premio per Romance & cigarettes di Turturro.
Poteva senz'altro andare meglio alla pattuglia francese: Cantet con Vers le sud si sposta ad Haiti e mette in scena con buon coraggio gli intrecci psicologici tra un gruppo di donne occidentali di mezza età che si recano sull'isola per turismo sessuale. La giuria ha comunque premiato Menothy Cesar, la giovane "vittima" del desiderio femminile, con il premio Marcello Mastroianni, mentre ha il sapore di un'imbarazzante contentino il Leone speciale per il complesso dell'opera assegnato ad Isabelle Huppert, splendida (al solito) interprete del bellissimo Gabrielle. Un confronto tra la sua performance e quella della pur brava Giovanna Mezzogiorno è inopportuno, ma tutto il film di Chereau avrebbe meritato maggior fortuna, dalla regia ispiratissima e di grande precisione formale soprattutto all'inizio all'altra interpretazione, quella di un Pascal Greggory non meno bravo della sua partner.
I cugini transalpini possono però essere soddisfatti per il Leone del Futuro, questo sì ben assegnato, che è finito nelle mani del giovane figlio d'arte franco-georgiano Géla Babluani: 13 (Tzameti), la sua opera, è un noir-thriller girato in un cupo bianco e nero e la cui trama, pur se imperniata in pratica su un'unica sequenza, è coinvolgente e priva di cadute di tensione.
Non è stato, quello di Babluani, il solo titolo meritevole della 2° edizione delle Giornate degli autori: si sono fatti apprezzare anche il danese Allegro, con il sempre bravo Ulrich Thomsen alla caccia della propria memoria in un film che ricorda un po' Eternal sunshine of the spotless mind; El viento di Eduardo Mignogna, ennesimo buon saggio minimalista del giovane cinema argentino; C.R.A.Z.Y., agrodolce racconto di formazione del canadese Jean-Marc Vallée; e soprattutto Craj - Domani, incursione ad opera di Davide Marengo nella tradizione musicale pugliese, a partire da uno spettacolo itinerante concepito da Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti (interpreti anche della versione su grande schermo).
E come spesso accade, proprio i documentari sembrano poter rappresentare le scialuppe di salvataggio dei festival quando le opere di fiction non risultano esaltanti: belli e commoventi La dignidad de los nadies di Solanas, che ritorna a testimoniare gli attuali drammi della sua Argentina dopo Memoria del saqueo, Kill Gil (vol. I) di Gil Rossellini, in cui il produttore-documentarista racconta con coraggio ed ironia la sua lotta per la vita dopo l'infezione da stafilococco che un anno fa lo aveva fatto finire in coma e poi comunque, in più momenti, a pochi passi dalla morte.
Non può stupire, allora, che proprio un documentario sia stata l'opera più applaudita di tutta la mostra: si tratta di Viva Zapatero di Sabina Guzzanti, evento sorpresa dell'ANAC. Attraverso la ricostruzione delle vicende che portarono alla soppressione da parte della Rai del suo Raiot, due anni fa, la satirista compone un'analisi sconfortante dell'attuale situazione italiana quanto a libertà di stampa.
Sullo schermo si susseguono i commenti di Fo, Luttazzi, Travaglio, Paolo Rossi, così come i silenzi e gli imbarazzi dei politici e degli ex membri del CdA della televisione di Stato: poco o nulla che non si sia già visto, è vero, ma avere sempre presente lo scarto tra cosa dovrebbe essere l'informazione (e come dovrebbe essere regolata) in un Paese democratico e cos'è (e com'è regolata) oggi in Italia non fa certo male, anzi.
Coincidenza singolare, tra l'altro, quella che ha visto la proiezione del film nello stesso giorno in cui Müller pare abbia ceduto alle proteste di alcuni produttori italiani vietando agli accreditati cinema l'accesso alla proiezione-stampa di La seconda notte di nozze di Avati. Gli accreditati in verde, è una delle deficienze del festival, avrebbero diritto all'ingresso solo ad una delle quattro proiezioni previste per i film in concorso, quella mattutina che si tiene all'Area Alice il giorno dopo le proiezioni pubbliche e due giorni dopo quella per la stampa.
Al problema solitamente si ovvia mettendosi pazientemente in fila anche alle altre e sperando che, entrati gli aventi diritto, avanzi qualche posto in sala, con il rischio di aspettare a volte anche due ore per poi rimanere fuori (e quest'anno il minor affollamento di titoli in cartellone ha avuto l'effetto negativo di allungare le file).
Ma che fine rischiano di fare i possessori di questo accredito (che peraltro sono molti, vista la generosità con cui la tessera viene concessa) se non possono nemmeno contare su queste scappatoie? Irrita, tra l'altro, il motivo di questo boicottaggio, se è vero, come pare, che i produttori non abbiano gradito i fischi che gli spettatori hanno riservato a pellicole abbastanza brutte, come Musikanten di Battiato e I giorni dell'abbandono di Faenza, da far sì che i critici se ne rendessero conto anche senza bisogno di indizi da parte del pubblico. Sgradevole poi l'atteggiamento dei due registi che, dimentichi del fatto che tra gli oneri del portare un film ad un festival dovrebbe esserci anche l'accettazione del giudizio popolare, hanno preferito accusare gli spettatori di incompetenza e, nel caso di Faenza, minacciare di non portare più le proprie pellicole al Lido. A tenere a galla la bandiera tricolore, quindi, stanti anche l'accoglienza non entusiastica riservata a Texas di Paravidino e la scarsa visibilità in programma di La passione di Giosuè l'ebreo di Scimeca, hanno pensato gli ultimi due titoli nostrani in concorso. Ma, per quanto salutati con favore dal pubblico, sia La bestia nel cuore che La seconda notte di nozze non sono parsi all'altezza di altri concorrenti nella corsa al Leone d'Oro.
Passando in rassegna le sezioni collaterali del festival, si può notare come, nell'assegnare il premio della Settimana della Critica a Mater Natura di Massimo Andrei, il pubblico sembri essersi allineato alle coordinate che hanno dettato le scelte della giuria maggiore; il premio Orizzonti e quello Orizzonti Doc, invece, sono stati vinti rispettivamente da East of Paradise di Lech Kowalski, terzo capitolo della sua trilogia sull'Est, dopo The boot factory e On Hitler's highway, e da Pervye na Lune (The first on the moon) di Aleksey Fedortchenko, ricostruzione finta dell'altrettanto finto primo tentativo di conquista dello spazio da parte dell'Unione Sovietica. Due indizi in più dell'interesse presente nei confronti della forma documentaria, forma che ha caratterizzato sei dei titoli inseriti nella sezione. Dall'altra parte, cioè tra le opere di fiction, da menzionare almeno Everything is illuminated, interessante esordio alla regia di Liev Schreiber, e La vida secreta de las palabras, con Isabel Coixet che torna a dirigere Sarah Polley, dopo Mi vida sin mì, in un melodramma abilmente costruito su psicologie e silenzi.
Insomma, un festival che dal punto di vista della qualità non ha visto i picchi (positivi e negativi) dell'anno scorso, ma che anche in mancanza, come detto, di capolavori, è riuscito a far emergere proposte interessanti. Detto del trattamento riservato agli accreditati e del fatto che le misure straordinarie di sicurezza annunciate non hanno creato particolari problemi di gestione, rimane almeno un dubbio circa la logistica dell'evento, con Settimana della Critica e Giornate degli Autori a monopolizzare la Sala Perla e le due Storie Segrete (quella del cinema asiatico e la seconda parte di quella del cinema italiano) confinate nell'Astra o nella Volpi. E se nel primo caso la scelta può essere dettata dall'intenzione di rendere sempre più autonome le due sezioni, nel secondo si rischia una ghettizzazione che difficilmente potrà giovare in futuro a retrospettive analoghe, a prescindere dalla qualità del programma. Anche sul versante strutturale ci sarà quindi da lavorare, in prospettiva futura, per un festival che sembra sempre diviso tra l'evento autoriale-artistico e la vetrina commerciale.
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