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Premi Oscar, All'Accademy l'inglese non va più di moda
di Keivan Karimi
L'edizione
2012 dei Premi Oscar come al solito consegnati al Kodak Theatre sulla
Hollywood Boulevard di Los Angeles hanno confermato una tendenza già
piuttosto preponderante nei giudizi dell'Accademy degli ultimi anni;
il fatto in questione riguarda il trionfo eccezionale, dal punto di
vista di premiazioni e clamore suscitato, del film The
Artist,
pellicola francese del regista Michel Hazanavicius, un vero e proprio
omaggio al cinema muto hollywoodiano, quello degli anni '20, alla
successiva nascita del musical e a quelle star d'oltreoceano capaci
di incantare al solo battito di ciglia. Il successo di The
Artist si
basa dunque fondamentalmente sulla brillantezza ed il divertente modo
di riproporre un tipo di cinematografia che in America viene
interpretata come la base fondante di tutto il cinema moderno e
contemporaneo, ma le 5 statuette conferite al progetto transalpino
rappresentano l'ennesimo capitolo di una Accademy ormai affascinata
dai lavori di matrice non anglofona. L'Oscar al miglior attore
protagonista Jean Dujardin è dovuto sì all'eleganza formale ed
interpretativa che riporta alla mente il primo Clark Gable o un
novello Rodolfo Valentino, ma anche per una tipologia di recitazione
che si discosta da quella dei divi statunitensi, di coloro attinenti
alle storie reali, dal Brad Pitt che incarna il geniale manager di
football in Moneyball o
dal George Clooney uomo d'affari turbato e distrutto in Paradiso
amaro.
Dujardin è l'emblema che qualcuno ad Hollywood apprezza in maniera piuttosto
evidente quell'arte attoriale vecchio stampo, un po' neorealista e un
po' fantasiosa, lontana dai monologhi e dagli esimi discorsi stile Al
Pacino. Dicevamo di una tendenza dell'Accademy ormai appurata e
regolare, che annovera tra gli ultimi premiati non anglofoni anche
l'austriaco Cristoph Waltz, generale nazista crudele e brillante
nell'ultima fatica di Tarantino Bastardi
senza gloria.
Così come gli ispanici Penelope Cruz e Javier Bardem, coppia nella
vita e nel vanto di aver conquistato per le interpretazioni di grandi
pellicole l'ambita statuetta come migliori attori non protagonisti.
Fino ad arrivare al nostro Roberto Benigni, folle mente e braccio de La vita è
bella, mattatore
esuberante che fece impazzire la platea di Los Angeles con
un'interpretazione alla ricerca di un'antica comicità fatta di
movenze, ritmo, estro e stravaganza. Non è dunque troppo
inappropriato analizzare il fatto che la giuria dei premi
cinematografici più ambiti a livello internazionale abbia un debole
per un modo di fare cinema estroverso e brillante, capace di
ricordare un po' la vecchia Hollywood, quella degli interpreti tuttofare e di un cinema tanto spettacolare nel contenuto quanto intenso
ed autoriale nella forma.
E quasi automatico quanto dovuto sarà l'apporto di tali interpreti europei non anglofoni nel mondo dorato del cinema statunitense, divenuta una seconda casa per molti attori di livello e qualità provenienti dal vecchio continente, tendenza sviluppatasi già nei primi decenni della nascita del mondo di celluloide, quando dive del calibro di Greta Garbo o Marlene Dietrich si spostarono negli Usa attratte da lussi e fortune offerte dalle Majors. Mettiamoci anche quel fascino quasi esotico poco attinente dagli standard d'oltreoceano che è sinonimo di novità ed originalità a favore degli spettatori. Occhio allora a Dujardin ed ai suoi comprimari, la statuetta appena vinta è statisticamente solo l'inizio di un'avventura nella favolosa Hollywood così generosa per i protagonisti d'Europa.
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