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Fuori sincrono

Rubrica del 07 03 2012

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Rubrica

Scorsese dalla parte dell'attrazione, ecco il cinema impegnato che scova nuovi orizzonti

di Keivan Karimi

Il 3 febbraio scorso nelle sale italiane è uscita l'ultima fatica di Martin Scorsese, forse non la più emozionante e brillante dello splendido regista statunitense che ha rivoluzionato la Hollywood degli anni '70, ma certamente uno dei più attesi titoli dell'anno cinematograficamente parlando. Si tratta di Hugo Cabret, pellicola realizzata in 3D che segna una svolta non solo nella carriera di Scorsese, ma anche per un certo tipo di filmografia d'oltreoceano che fino a questo momento si era sempre comportata in modo lineare e artisticamente statico.
Non è tanto l'utilizzo della terza dimensione visiva a rendere innovativo questo progetto, bensì l'unione artistica/mentale che il regista ha stabilito con uno dei personaggi più basilari dalla nascita della settima arte, ovvero Georges Méliès, l'illusionista francese che ad inizio Novecento ha cominciato a sperimentare il cinematografo per arricchire la propria materia artistica e professionale. Scorsese in questa sua operazione a metà tra la fantascienza e l'avventura bambinesca ha manovrato i fili della spettacolarizzazione utilizzando proprio l'insegnamento di Méliès sul valore del cinema agli antipodi.
Per capirlo bisogna tornare alla base del progresso della celluloide, quando i primi teorici divisero il cinema primitivo in due schieramenti ideologici e pratici: da una parte c'era il cinema dei fratelli Lumière, i celeberrimi inventori stabiliti di questo fantasmagorico prodotto; il loro fu etichettato giustamente come cinema della realtà, delle riproduzioni, della macchina da presa utilizzata come specchio di ciò che accade, basato sulla stimolazione dello spettatore attraverso la messa in mostra di territori conosciuti o comunque possibili e tangibili. Dall'altra parte c'è invece proprio Georges Méliès, il suo cinema è l'arte dell'attrazione, della fantasia, dell'illusione, quindi automaticamente del divertimento, della magia giocosa, una sorta di aiuto progressivo al prestigio manuale, un'arte dell'apparire fatta per il pubblico di ogni genere.
Stabilita la differenza tra l'idea base dei Lumière e quella del collega Méliès è automatico il fatto che il cinema soprattutto moderno, quello iniziato a delinearsi negli anni '40 con i primi incroci tra spettacolo, mente e realtà oggettiva, si sia basato sul primo tipo di caratterizzazione.

Tornando a Scorsese, autore di pellicole d'oro zecchino come Taxi driver o Toro Scatenato, si può certamente capire come la sua carriera e la sua poetica autoriale sia di stampo prettamente lumièriano, ovvero sulla falsa riga di una filmografia attratta dalle storie reali, basate sulla psicologia labile dei suoi personaggi, dove l'effetto speciale maggiore può essere rappresentato dalla caduta mortale di Martin Sheen dall'alto di un grattacielo di Boston in The departed.
Ora con Hugo Cabret la svolta; Scorsese tira fuori dal cilindro il suo vecchio ma mai troppo sviluppato amore artistico per Georges Méliès, dirige una pellicola che suona come un omaggio a quell'idea di usare il cinematografo come strumento di attrazione visiva, senza ulteriori scopi, come fosse un cartone animato o un circo equestre in terza dimensione, tanto da affidare ad un interprete magnifico come Ben Kingsley il ruolo dello stesso Méliès, padrino del protagonista Hugo. L'idea è piuttosto originale e magniloquente dal punto di vista scenico, tanto da aver raccolto pareri positivi persino dall'Academy, quest'anno divisa tra la nostalgia in bianco e nero di The Artist e per l'appunto la fantasmagoria moderna di Hugo Cabret. Certo è che se anche un grande vecchio come Scorsese, straordinario braccio armato di una cinematografia realistica, attenta e crudele, si mette a giocare con il 3D per riportare sotto gli occhi di tutti quel divertentissimo Viaggio nella Luna datato 1902 vuol dire che il mondo delle pellicole sta mutando progressivamente standard ed orizzonti futuri.

 
 
 
 
 
 
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