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Scorsese dalla parte dell'attrazione, ecco il cinema impegnato che scova nuovi orizzonti
di Keivan Karimi
Il
3 febbraio scorso nelle sale italiane è uscita l'ultima fatica di Martin Scorsese, forse non la più emozionante e brillante dello
splendido regista statunitense che ha rivoluzionato la Hollywood
degli anni '70, ma certamente uno dei più attesi titoli dell'anno
cinematograficamente parlando. Si tratta di Hugo Cabret,
pellicola realizzata in 3D che segna una svolta non solo nella
carriera di Scorsese, ma anche per un certo tipo di filmografia
d'oltreoceano che fino a questo momento si era sempre comportata in
modo lineare e artisticamente statico.
Non è tanto l'utilizzo della
terza dimensione visiva a rendere innovativo questo progetto, bensì
l'unione artistica/mentale che il regista ha stabilito con uno dei
personaggi più basilari dalla nascita della settima arte, ovvero Georges Méliès, l'illusionista francese che ad inizio Novecento ha
cominciato a sperimentare il cinematografo per arricchire la propria
materia artistica e professionale. Scorsese in questa sua operazione
a metà tra la fantascienza e l'avventura bambinesca ha manovrato i
fili della spettacolarizzazione utilizzando proprio l'insegnamento di Méliès sul valore del cinema agli antipodi.
Per capirlo bisogna
tornare alla base del progresso della celluloide, quando i primi
teorici divisero il cinema primitivo in due schieramenti ideologici e
pratici: da una parte c'era il cinema dei fratelli Lumière, i
celeberrimi inventori stabiliti di questo fantasmagorico prodotto; il
loro fu etichettato giustamente come cinema della realtà, delle
riproduzioni, della macchina da presa utilizzata come specchio di ciò
che accade, basato sulla stimolazione dello spettatore attraverso la
messa in mostra di territori conosciuti o comunque possibili e
tangibili. Dall'altra parte c'è invece proprio Georges Méliès, il
suo cinema è l'arte dell'attrazione, della fantasia, dell'illusione,
quindi automaticamente del divertimento, della magia giocosa, una
sorta di aiuto progressivo al prestigio manuale, un'arte
dell'apparire fatta per il pubblico di ogni genere.
Stabilita la
differenza tra l'idea base dei Lumière e quella del collega Méliès è automatico il fatto che il cinema soprattutto moderno, quello
iniziato a delinearsi negli anni '40 con i primi incroci tra
spettacolo, mente e realtà oggettiva, si sia basato sul primo tipo
di caratterizzazione.
Tornando a Scorsese, autore di pellicole d'oro
zecchino come Taxi driver o Toro Scatenato, si può
certamente capire come la sua carriera e la sua poetica autoriale sia
di stampo prettamente lumièriano,
ovvero sulla falsa riga di una filmografia attratta dalle storie
reali, basate sulla psicologia labile dei suoi personaggi, dove
l'effetto speciale maggiore può essere rappresentato dalla caduta
mortale di Martin Sheen dall'alto di un grattacielo di Boston in The
departed.
Ora con Hugo
Cabret la svolta; Scorsese tira
fuori dal cilindro il suo vecchio ma mai troppo sviluppato amore
artistico per Georges Méliès, dirige una pellicola che suona come
un omaggio a quell'idea di usare il cinematografo come strumento di
attrazione visiva, senza ulteriori scopi, come fosse un cartone
animato o un circo equestre in terza dimensione, tanto da affidare ad
un interprete magnifico come Ben Kingsley il ruolo dello stesso Méliès, padrino del protagonista Hugo. L'idea è piuttosto
originale e magniloquente dal punto di vista scenico, tanto da aver
raccolto pareri positivi persino dall'Academy, quest'anno divisa tra
la nostalgia in bianco e nero di The Artist e per l'appunto la fantasmagoria moderna di Hugo Cabret. Certo è che se anche un grande
vecchio come Scorsese, straordinario braccio armato di una
cinematografia realistica, attenta e crudele, si mette a giocare con
il 3D per riportare sotto gli occhi di tutti quel divertentissimo Viaggio nella Luna datato
1902 vuol dire che il mondo delle pellicole sta mutando
progressivamente standard ed orizzonti futuri.
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