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Fuori sincrono

Rubrica del 22 05 2004

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Rubrica

J'aime l'amour fou (Considerazioni al buio e dichiarazioni d'amore sul filo della memoria)

di Fabrizio Ferrero

 

"L'arte è sovversiva perché fa appello all'inconscio"
     
                                     David Cronenberg


                                                                                                                                        
Non ricordo quando mi trovai immerso in un cinema per la prima volta, forse una domenica pomeriggio d'inverno, in una Torino nebbiosa e fredda, forse davanti alle immagini di Fantasia che lasciavano un imprinting a 35 mm sulle mie retine, sulla corteccia cerebrale e poi oltre fino al nucleo più interno e profondo di me stesso. So che chiesi di rivedere il film e mi stupii che fosse possibile rimanere lì, in quel ventre luminescente, e aspettare che tutto si ripetesse. Di nuovo.
Altre volte feci quella richiesta, ed ogni volta provavo un senso di sollievo ed appagamento. Quella strana abitudine continuò ancora ed ancora: ci furono matinée e pomeriggi. E poi serate. E non finì più.

Probabilmente è l'ingresso ritualizzato e scandito da passaggi (il pagamento del biglietto, l'attesa, l'assaporare i primi fotogrammi ed i  titoli di testa) in uno stato che non è veglia e non è sonno,
circondato da un buio complice e separatore, nonché confine, quasi una fase profonda della meditazione o di qualche tecnica di rilassamento, ad avere avuto maggior presa su di me e maggiore influenza sul tipo di visioni (in due sensi) che preferisco e ricerco. Forse da subito mi è stato chiaro che avrei odiato il neorealismo italiano, senza ancora sapere cosa fosse, e buona parte del successivo cinema italiano che, volente o nolente, di esso è figlio. Cinema di case di ringhiera, di cortili, di piccole beghe, di cialtroni e ruffiani. Non ci sono sogni in questo cinema, esso non è sogno, non è poesia.
E' più simile alla descrizione del passaggio di un autobus o di uno scippo. E non c'è scopo nel girare un film e nel vederlo se esso non rielabora e non ci mette davanti agli occhi, parlando direttamente all'inconscio, i nostri sogni e i nostri incubi. Potrebbe sembrare una scelta masochistica la visione di un
incubo dietro il pagamento di un biglietto, ma a questo punto un'enorme fetta del mercato (parola orrenda) cinematografico non esisterebbe: niente horror, niente thriller, niente fantascienza. Teniamo conto che in certi ambiti si pagano cifre enormi per raccontare costantemente, seduta dopo seduta,
i propri brutti sogni.

Citando, a caso, Gilles Deleuze:

"[...]per questo il cinema europeo si è confrontato molto presto con un insieme di fenomeni, amnesia ,ipnosi, allucinazione, delirio, visione dei moribondi e soprattutto incubo e sogno". (G.Deleuze, L'Immagine-Tempo p.68).

Il riferimento è all'adolescenza del cinema, a opere che ho visionato in un silenzio assordante, in un'allucinazione vigile, in una sospensione del tempo, molti anni dopo il mio imprinting:
i pilastri dell'espressionismo da Das Kabinett der Doktor Caligari a Metropolis a La Chute de la Maison Usher, tre opere fondanti per molto cinema dei successivi ottant'anni. Proprio La Chute vede un incontroinatteso ma quasi obbligato di tre sensibilità particolari: Jean Epstein, Edgar Allan Poe e, soprattutto, Luis Buñuel che ne curò l'adattamento

Chiunque s'incontri con l'opera di Luis Buñuel e continui a frequentarla non può non constatare la crescita di un proprio "occhio nuovo",  ovviamente dopo il "taglio" di quello vecchio, di un fenomeno sempre improvviso, mai graduale,  di apertura di cateratte precedentemente, al massimo, socchiuse, sottaciute se non ignorate. Buñuel, da bravo surrealista della prima ora, in ogni suo film inserisce almeno una sequenza onirica, da Un Chien Andalou fino all'apoteosi di sogni incastrati
l'uno nell'altro de il Fascino Discreto della Borghesia, sogni dei quali si perde la traccia dei rispettivi proprietari, momenti che non disdegnano la costruzione dello sberleffo, come nella sequenza della mano che cammina ne L'Angelo Sterminatore. O come nella lunga pernacchia poetica, tenera e indimenticabile che è L'Age d'Or.
E' bizzarro che Jung abbia definito Buñuel uno schizofrenico dopo aver visto Un Chien Andalou, forse egli stesso turbato da tanta disinvoltura, e da tanta potenza suscitata dall'irrompere dell'inconscio.
Un'unica visione onirica è veramente terrificante in tutto Buñuel: è dentro Los Olvidados ed ha come vero protagonista un grosso pezzo di carne.

Carne. Le modificazioni della carne e del corpo, la nascita di una Nuova Carne plasmata dalla tecnologia o dalla carrozzeria di un'auto. E le modificazioni del come si fa sesso. E' un gradino superiore nella scala dell'inquietudine, è uno stadio diverso nel godimento del cinema, forse più lancinante, più contemporaneo o forse futuristico. Questo è Cronenberg per me.
Crash su tutti nel suo clash con la letteratura di Ballard, fantascienza del "dietro l'angolo" del quotidiano allucinato. Crash come esempio, perché di Cronenberg si ama tutto e io amo tutto. InCronenberg il sogno non è incastonato nella veglia, ma è sogno tutto il film, senza soluzione di continuità, senza delimitazioni; sogno che si fa allucinazione in Pasto Nudo, allucinazione reiterata senza nessuna pietà e senza nessun punto di ancoraggio alla realtà, grazie ad un altro incontro letterario, in questo caso Burroughs. Cinema senz'altro bibliofilo che dà la sensazione di mangiare i libri, odorare e
leccare le pagine, oltre che sviscerarne il contenuto. Cronenberg è un autore colto, e può vantarsi di essere costantemente scambiato per un europeo. Come un altro cineasta soltanto.

Allucinazione, visione, premonizione o sogno? Il paranormale, forse. Come collocare il nano della stanza rossa? Quali sono i personaggi "reali" e quali quelli sognati e chi li sta sognando? Betty e Rita o Diane e Camilla? Come prendere il ritrovamento di un orecchio sul prato? E come dimenticarsi di un neonato/girino/pesce/mostro urlante? Forse David Lynch si può permettere di fare a meno della letteratura perchè egli è un enorme libro infinito in forma d'uomo. Pare che egli abbia
trovato il modo di lasciare sgorgare con estrema fluidità le immagini più bizzarre ed inquietanti, oltre che fortemente caricate di simbologie spesso arcane. Ma il cinema di Lynch è un cinema più di domande che di risposte ed è giusto così. Cercare di giustapporre delle risposte posticce non è una pratica sana con Lynch, fatto sta che un giorno, in un raro momento di lucidità ho detto ad un'amica di diventare agnostica di fronte a Mulholland Drive, di lasciare cadere o sospendere ogni forma di giudizio, ogni tentativo di interpretazione e di accettare il fatto compiuto: è semplicemente uno dei film più belli della storia del cinema e riguardo al suo contenuto non ci sono spiegazioni. In questo modo non andiamo ad interferire con quella parte profondissima di noi che ha già afferrato tutto e rimane reticente e silenziosa, rifiutandosi di cedere alla razionalità.
Lynch turba in Mulholland Drive, (come in Lost Highway e in tutta la sua opera), con la sua serie di doppelgänger e personaggi bizzarri,  ma allo stesso tempo riesce a donare un senso di serena completezza grazie ad una compiutezza ed una raffinatezza estetica quasi senza pari.
Lynch è anche suono: è uno dei registi che curano personalmente e maniacalmente il sound design di ogni fotogramma; i suoi drones iniziano con Eraserhead ed arrivano a Mulholland Drive, sottolineando l'angoscia palpabile, contrappuntata  dalle musiche spesso eteree di Angelo Badalamenti, autore del film quanto Lynch stesso.

Esattamente 45 anni fa, al Festival di Cannes del 1959, il cinema della memoria fa irruzione sulla scena suscitando scandalo ed irritazione in tutti gli ambienti, sia progressisti, sia reazionari; è un film stupendo, poetico, visionario, una doppia storia d'amore con un presente ed un passato che si intersecano e paiono sovrapporsi, è un film profondamente pacifista.
Hiroshima Mon Amour sperimenta e osa nuovi linguaggi. In quel festival Alain Resnais e François Truffaut (con I 400 Colpi) danno la stura ad una stagione nuova ed intensissima del cinema francese e non solo: la Nouvelle Vague nasce ed i manifesti di pellicola si susseguiranno per molti anni. La Nouvelle Vague è innanzitutto scrittura: l'idea della caméra-stylo rivendica una totale autonomia linguistica del cinema ed allora gli "ex critici" dei Cahiers du Cinéma si fanno registi-pittori-scrittori impugnando la cinepresa.
E' letteratura fatta di luce e movimenti di macchina, di salti temporali e incongruenze. Spesso i nuovi metteurs en scène diventano anche poeti sognanti. L'anno successivo è l'anno dell' esordio di Godard ed ecco la poesia anarcoide e folle di Fino All'ultimo Respiro (A Bout de Souffle), film di gesti gratuti e spensierati compiuti da quella faccia indimenticabile di "Bébel" Belmondo.
Nel 1961 Resnais torna con un film controverso, provocatorio ed inquietante: L'Anno Scorso a Marienbad
 (L'Année Dernière à Marienbad). Ancora cinema della memoria, del non detto, del presente e del passato che si intersecano e si scambiano di posto, insieme ad una recitazione straniata e straniante basata sulla sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet.
Come in una specie di staffetta, nel 1962, il testimonio viene passato di nuovo a Truffaut, che esce con quello che forse è il suo film più bello: il cerchio si chiude ed è un ritorno all'amour fou surrealista, ma senza surrealismo. Jules et Jim ha un forte sapore anarcoide con un retrogusto di Vigo. Jules, Jim e Catherine: due amici ed una donna che ora ama l'uno ora ama l'altro ma in fondo ama entrambi riamata; mai nessun film è stato così poetico e dolce, scandaloso per l'epoca, ridanciano e gaudente
nel trattare l'amicizia e l'amore triangolare, per concludersi però con una soluzione estrema, ma che mantiene un che di canzonatorio.
Godard e Truffaut quasi esigono il mio amore dato che l'uno nel 1965 e l'altro nel 1966 si misurarono con la fantascienza,
rispettivamente con Agente Lemmy Caution, Missione Alphaville (Alphaville, Une Etrange Aventure de Lemmy Caution) e con Fahreheit 451.
Qui mi fermo perché potrei continuare in eterno e questo non vuole essere nè un trattato di storia del cinema, nè tantomeno un saggio di critica cinematografica, ma solo una disordinata, appassionata, parziale dichiarazione d'amore per il cinema e per chi lo ha fatto e per chi continua a farlo.

 
 
 
 
 
 
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Commenti
 

I lettori hanno scritto 8 commenti

 
 
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Angelus
  • commento Emh, io sono per le patate novelle.
 
 
 
 
 
utente
Ali
  • commento Non vedo una patata da due mesi.
 
 
 
 
 
utente
Lego K.
  • commento nouvelle vogue. scusate, volevo scrivere nouvelle vogue.
 
 
 
 
Pagine: 1 2
 
 
 
 
 
 
 
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