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Il mercante di Venezia: Quando il cinema fa venir voglia di teatro
di Luigi Faragalli
Si direbbe che al cinema siano noti soltanto due modi per avvicinarsi a Shakespeare, attualizzarlo e svecchiarne ambientazioni e costumi oppure restargli estremamente fedele. Si possono prendere i fioretti e trasformarli in splendide pistole automatiche cromate ed istoriate, si può mettere sullo schermo addirittura William stesso e farlo districare tra affanni mortali, come soldi e sesso, fino a fargli vivere un'amorosa commedia con vicenda personale e scritti che scorrono paralleli, oppure si può semplicemente lasciarlo stare, trattarlo con riguardo e rispetto forse anche eccessivi e mettere in scena una trasposizione pedissequa delle sue opere. Ciò che raramente si coglie però è il fatto che queste sono soltanto scelte estetiche, di superficie in definitiva, quasi nessuno si permette di stravolgere i contenuti di Shakespeare, di spostare una virgola nelle sue tesi e nelle sue tematiche, in questo William è intoccabile, quello che ha scritto va lasciato com'è, deliziosamente equilibrato, profondo e sagace quanto truce e spietato, carico, ricco, vario.
Michael Radford sceglie la fedeltà assoluta, visiva oltre che contenutistica, quel mettersi completamente al servizio di un testo che, da parte di un artista quale un regista indubbiamente è, equivale ad una sorta di rinuncia ad esercitare, uno scomparire, un ritirarsi nella maniera, nell'esercizio attento della professione senza alcuno slancio personale, concedendo quindi a chi guarda la possibilità di parlare più di vera e propria devozione che di semplice fedeltà.
Perché Shakespeare a qualcuno fa questo effetto? Perché molti attori americani non si vergognano affatto di dichiararsi intimoriti dalla prova? Lo stesso Pacino nel Riccardo III si dilunga sulla questione.
Per chi ha poco o nulla a che fare col mondo anglosassone non è facile da capire, per farsi un'idea basti però sapere che per tradizione la nascita di William si celebra il 23 di aprile ovvero nel giorno di San Giorgio, patrono d'Inghilterra.
Probabilmente il giovane figlio di papà, poco più che ventenne sul finire del cinquecento, girando in cerca di fortuna per i teatri di Londra non immaginava nemmeno quale simbolo potente sarebbe diventato secoli dopo.
Potente quanto ingombrante però, così ingombrante da doversi affannare a mettere le mani avanti talvolta, a dire che sì, ok, è Shakespeare ma uno Shakespeare diverso.
Dice Al Pacino: - Shakesperare è scritto per il teatro, chi lo recita tende a sporgersi verso il pubblico come gli attori sul palco, invece al cinema tutto è diverso, bisogna condensare, si lavora per sottrazione, ci sono i primi piani, le inquadrature. Ogni volta che diventavo troppo teatrale, che rischiavo di proiettarmi all'infuori, il regista mi conteneva. Altrimenti chissà che sarebbe successo. Anche al monologo famoso di Shylock è stata data un'interpretazione nuova, tutta improntata sulla rabbia. Anche questo è merito del regista e delle discussioni fatte sul set. Quel monologo, così conosciuto abbiamo tentato di interpretarlo in modo nuovo.
E' vero? Siamo davvero di fronte a un modo nuovo di fare Shakespeare al cinema? L'Antonio palesemente omosessuale basta a farci dire questo? Siamo di fronte ad un regista che ha saputo dare un tocco personale guidando gli attori a dovere e ad un protagonista che non si è sporto verso il pubblico?
Assolutamente no, senza dubbio alcuno, assolutamente no.
Il mercante di Venezia è un bel film, estremamente teatrale, con delle scene che sono così fedeli all'originale da essere, per l'appunto, l'originale, con costumi e dialoghi estremamente teatrali e con una stella quale Pacino, attorno alla quale ruota tutta la messinscena, capace di una recitazione anch'essa estremamente teatrale, fatta tutta di gravità e di stanchezza, di grande mimica e parlato costruito ed impostato.
Quel che mi chiedo è perché devo andare al cinema a vedere qualcosa di così sfacciatamente concepito per un altro mezzo espressivo? Vado forse a vedere un concerto del mio autore preferito al cinema? Vado forse a vedere uno show televisivo magari con Pippo Baudo al cinema? Vado a vedere una mostra di quadri al cinema oppure una lettura di poesie?
Se devo vedere uno Shakespeare come quello precisino e ricalcato di Radford francamente preferisco farlo a teatro, con tutto quello che il teatro ha in più da offrire per un testo scritto, appunto, per il teatro.
Nel produrre un artefatto così aderente ad un modello altro rispetto al concetto di film si finisce per generare una carente opera teatrale. Cosa manca?
Manca la polvere delle assi di legno del palcoscenico, una rappresentazione teatrale è fatta di gente in carne e ossa a pochi metri da te, ne senti i passi, arrivi quasi a sentirne il respiro, vederne il sudore, c'è una realtà oggettiva che contrasta nettamente con la messinscena e chiede prepotentemente fiducia, amore.
Manca il sipario, manca il contorno, manca la ritualità ed i tempi che sono parte fondamentale del teatro.
Mancano le scene finte, che ricordano il vero ma si capisce chiaramente che son finte, la Venezia vera di Radford è di una tristezza estenuante e ruba quasi la scena ai comprimari quando Pacino non riempie lo schermo con la sua magnificenza.
Venezia qua si vede quale è, un posto in cui a volte fa un freddo bastardo che ti tira addosso delle goccioline d'acqua finissime e gelide contro le quali ogni tentativo di difesa è vano, un posto dove ogni angolo buio alla sera sembra prometterti un'avventura o un disastro, un posto fatto di sesso e fatiscenza, un posto dove si beve un sacco ed i tramezzini sono ripieni in modo inverosimile.
Va bene, forse la storia dei tramezzini non si vede.
Insomma in questo film c'è poco film, troppo teatro se si voleva far cinema e poco teatro se si voleva fare teatro, in ogni caso un po' troppo Pacino, forse anche perché Joseph Fiennes non è buono nemmeno per far sapone, e poi troppa, troppa, troppa Venezia.
Ed Al si sporge, ah se si sporge, eccome se si sporge, si sporge un sacco. Non mi freghi Al.
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