Libano, giugno 1982. Quattro militari di vent'anni israeliani si ritrovano intrappolati in una cittadina libanese bombardata dagli israeliani.
Il voto del redattore
- voto
- 5/5
- valutazione
- Potente e spietata iniziazione alla vita di 4 giovani di fronte alla morte, nella Prima Guerra del Libano.
Il voto dei lettori
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- di Jean-Pierre Jeunet
- dal
- genere Drammatico
- tipo Guerra
- Luigi Faragalli
- Contro Il pessimo metodo
- A favore La violenza della psicoanalisi
- Sara Troilo Vs. Keivan Karimi
Lebanon
di Samuel Maoz
- Dati
- Titolo originale: Lebanon
- Soggetto: Samuel Maoz
- Sceneggiatura: Samuel Maoz
- Genere: Drammatico - Guerra
- Durata: 90 min.
- Nazionalità: Israele
- Anno: 2009
- Produzione:
- Distribuzione: BIM
- Data di uscita: 23 10 2009
"L'uomo è d'acciaio, il carrarmato è solo ferraglia"
di Antinoo
Nel Giugno del 1982 esplose la cosiddetta Prima Guerra del Libano: Shmuel (Yoav Donat) è un artigliere, Assi (Itay Tiran) un non particolarmente carismatico capocarro, Herzel (Oshri Cohen) un intelligente e coraggioso servente e Yigal (Michael Moshonov) un emotivo pilota. Questi 4 ventenni hanno in comune l'essere rinchiusi, senza la minima seria preparazione, all'interno di un carrarmato e spediti in missione. Perderanno brutalmente la loro innocenza e guarderanno attraverso il mirino di un cannone, occhio tanto privilegiato quanto maledetto, gli orrori quotidiani di una normale giornata di combattimento.
Questa, per sommi capi, è la trama di Lebanon: opera prima e, come quasi sempre in questi casi, autobiografica di Samuel Maoz. Per capire appieno il valore, la potenza e il significato di questo lavoro, vincitore meritatissimo del Festival di Venezia 2009, bisogna, appunto, vederlo: la vista, infatti, è il senso principale a cui Lebanon fa appello. Quasi interamente girato all'interno di un carrarmato, permette di sentire esattamente con i giovani protagonisti: ed è terrificante. La sala, improvvisamente, è assalita dall'odore di grasso, di piscio, di liquame e di polvere da sparo. Nei Nostri occhi si riflette lo stesso orrore che appare su quelli dei ragazzi in guerra e, come loro senza scampo, non possiamo assolutamente guardare dall'altra parte perché, semplicemente, non c'è null'altro da guardare.
È come quando sei a casa e in televisione danno un film dell'orrore: tu non vuoi guardare, magari cambi canale, ma poi torni morbosamente sulla stessa scena e, probabilmente, nelle ore a venire ci ripenserai, giocando a farti paura. Ma qui, adesso, non c'è nessuna finzione: le urla sono vere. La donna inquadrata dal mirino nella terribile nudità che è accusa, distrutta come la sua famiglia e la sua casa, piange davvero. Così come le gambe esplose, i volti rassegnati, il venditore di polli ridotto a moncherino. E la minaccia di torture terribili se non obbedisci o hai la sfortuna di nascere dalla parte nemica, quindi sbagliata, ti alita addosso, e ti raggiunge in piena anima: che tu sia all'interno del carrarmato o in sala cinematografica. Non fa alcuna differenza: non c'è scampo.
Assieme al biglietto per l'ingresso in sala, dovrebbe essere distribuita la bellissima e rivelatrice sinossi, scritta di proprio pugno dal regista. Tra i vari aneddoti narrati, ce n'è uno assolutamente rivelatore: per scrivere la sceneggiatura Maoz ci ha messo più di 20 anni. Tanto ci è voluto per accostarsi alla propria storia interiore senza essere assalito dai conati di vomito, dall'ansia e dal senso di colpa. Appena iniziate le riprese fu, però, colto da un fastidioso dolore al piede, che non accennò a diminuire nei giorni a venire. Un dottore lo visitò e diagnosticò una infezione molto aggressiva, da curare con pesanti antibiotici. L'indomani, dopo 12 ore consecutive di sonno indotto dai farmaci, il piede sanguinava leggermente ma non era più gonfio: aveva espulso cinque piccoli frammenti di shrapnel, un proiettile, evidente souvenir di quella vicenda e testimonianza di una avvenuta guarigione. In senso completo.
Non solo ho avuto la fortuna di visionare la pellicola in lingua originale, con i contrasti culturali così accentuati da un idioma diverso, ma anche di partecipare alla conferenza stampa ed incontrare l'autore, che ha dimostrato di non essere una specie di reietto reduce di guerra sociopatico, trattando molti argomenti in maniera intelligente, cordiale e persino divertente. Ad esempio, un giornalista ha chiesto com'era possibile che una storia carica di denunce come, tra le altre, l'uso di bombe al fosforo spacciate per qualcosa di molto più innocuo, fosse finanziato da Israel Film Fund. Samuel Maoz si è limitato a far notare che Israele è un paese in cui ognuno ha il diritto di esprimersi artisticamente anche su temi spinosi, specie quando un segreto non è più tale per milioni di persone. Ed ho sentito la platea incosciamente gelare nel paragone con la situazione artistica attuale in Italia, dove basta molto meno per gridare al complotto politico per fini sovversivi. Ed ancora, si è riflettuto su quanto la vicinanza per tema di Lebanon e Valzer con Bashir denuncino l'esigenza del popolo di Isreale di elaborare il trauma di così tanti conflitti voluti e pretesi da una ideologia ortodossa che, verosimilmente, non riguarda più l'individuo ma la solita piccola cerchia che detiene il potere. E che, ovviamente, si guarda bene dal finire dentro un carrarmato a 20 anni.
Alla fine Mi sono avvicinato al regista, gli ho stretto la mano, ed ho pensato che quella stessa mano che aveva guidato una macchina di morte era riuscita ad imbracciare una telecamera e a regalarMi tutto questo, e una speranza. Ho guardato dritto negli occhi chi me la porgeva, ed ho detto semplicemente "Thank you".
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