Storia vera accaduta in un paesino ungherese dopo la caduta del muro di Berlino. Il capitalismo approda in Ungheria vestendo i panni di un uomo italiano, il fascinoso Mario.
Il voto del redattore
- voto
- 0.5/5
- valutazione
- Un film sulla primissima occidentalizzazione di un paesino dell'Ungheria, senza alcuna attrattiva o motivo d'essere visto.
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Mario il Mago
di Tamas Almasi
- Dati
- Titolo originale: Mario il Mago
- Soggetto: Margit Halász (racconto)
- Sceneggiatura: Tamas Almasi
- Genere: Drammatico - Sociale
- Durata: 100 min.
- Nazionalità: Italia, Ungheria
- Anno: 2008
- Produzione: Luis Nero, Franco Nero
- Distribuzione: Altrofilm
- Data di uscita: 28 11 2008
Il mago che non incanta nessuno
di Antinoo
I sospettosi uomini della comunità acuiscono le proprie tendenze xenofobe con l'arrivo del vero e proprio proprietario della fabbrica: Mario (Franco Nero), affascinante e silenzioso imprenditore che ordina a Gerardo di recarsi in Ucraina a ripetere l'esperimento. Prima di partire, però, Gerardo propone proprio Veronica come capo reparto, perché "diversa da tutte le altre": questo fa sì che si crei un muro tra lei e le colleghe, un tempo amiche, che ora la guardano con sospetto, e tra lei e il marito, che una volta aveva una moglie sempre devota, pronta a soddisfare ogni richiesta e dedita alle piccole incombenze della casa. Muro che la stessa Veronica non fa che aumentare, iniziando a provare una segreta passione per Mario convinta, nonostante parlino due lingue completamente diverse e non abbiano mai fatto un vero e proprio discorso, di essere ricambiata. Convinzione che aumenta allorché Mario, dovendo tornare per due settimane a Bologna, le affida le chiavi di casa sua per innaffiare regolarmente le piante della villetta. Qui Veronica, sprofondata nelle sue fantasie sempre meno aderenti alla realtà, deciderà di sposare uno stile di vita e un aspetto completamente occidentale, disprezzando ogni precedente legame sentimentale o amichevole, in virtù del suo nuovo grande amore. Finchè Mario non torna, con una novità.
Mario, il mago, nonostante l'interessante trama ricca di potenzialità qui sopra accennata, è un film francamente brutto. Il regista, Tamás Almási, viene evidentemente da un passato di documentaristica, perché oltre al susseguirsi confusionario e sconnesso delle scene, evidentemente non voluto, non riesce a far percepire nessun approfondimento psicologico, ottenendo come unico risultato una narrazione totalmente asettica, noiosa e incapace di alcun tipo di immedesimazione. Il tema della corruzione di una natura a causa delle tante seduzioni offerte dall'ideale della democrazia occidentale si risolve in un taglio alla moda, le canzoni di Celentano e Cutugno, un paio di rossetti e un piatto di spaghetti, nella peggior tradizione dei Vanzina. Ad aggiungersi a questa incapacità registica, un adattamento in italiano da pena di morte che spreca il talento di Maria Rosaria Omaggio che presta la voce alla protagonista: in pratica il film è girato in ungherese, e poi interamente doppiato in italiano. Quindi dell'incapacità di Veronica di comprendere cosa dice e, probabilmente, prova Mario, e dei suoi sforzi per imparare l'italiano non rimane nulla. Ad esempio, la scena chiave, sulla riva del fiume, in cui i due si alternano dialogando senza alcuna continuità non sortisce alcun effetto a parte un leggero fastidio. Finché l'uomo non taglia il discorso, con una certa condiscendenza, dicendo che tanto lei non capisce nemmeno una parola di quello che lui dice.
Si spreca, così, la possibilità di dare vero respiro a una storia che, per quanto mal girata, avrebbe potuto narrare uno stralcio di contemporaneità attraverso l'irresistibile attrazione che le, per tanti anni e per tanti versi, sospirate idee di democrazia e di capitalismo occidentale hanno esercitato sui popoli comunisti. E di come la novità culturale totalmente mal gestita significhi anche annullamento delle proprie radici, con il rischio di perdere i propri valori, le categorie comportamentali e i giusti scrupoli. Il tutto in nome di un sogno italiano che può trasformarsi in incubo. In ogni momento. Né più né meno che quello americano.
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