Il voto del redattore
- voto
- 4.5/5
- valutazione
- A una domanda dovrebbe rispondere l'America oggi. Chi è il nemico? Eastwood mette in (bellissime) immagini la propria risposta.
Il voto dei lettori
- voto medio
- 4.6/5
- numero votanti
- Questo film è stato votato da 9 lettori
- di Jean-Pierre Jeunet
- dal
- genere Drammatico
- tipo Guerra
- Luigi Faragalli
- Contro Il pessimo metodo
- A favore La violenza della psicoanalisi
- Sara Troilo Vs. Keivan Karimi
Lettere da Iwo Jima
di Clint Eastwood
- Dati
- Titolo originale: Letters from Iwo Jima
- Soggetto: Iris Yamashita, Paul Haggis
- Sceneggiatura: Iris Yamashita
- Genere: Drammatico - Guerra
- Durata: 140 min.
- Nazionalità: USA
- Anno: 2006
- Produzione: Amblin Entertainment, DreamWorks SKG, Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures
- Distribuzione: Warner Bros.
- Data di uscita: 00 00 0000
Una storia fatta di lettere. Una guerra fatta da uomini.
di Sara Troilo
Questo è un esperimento. Non ho visto Flags of our fathers per poter assistere al punto di vista alternativo a quello americano sulla battaglia di Iwo Jima e per poterne parlare come fosse l'opera prima di questa operazione di sdoppiamento della visione operata da Clint Eastwood. Una scelta che non rispetta la volontà dell'autore, ma che vuole essere un tentativo di approccio all'evento narrato con sguardo "intatto". Troppi preamboli, veniamo al pallidissimo colore di Lettere da Iwo Jima, che si tinge solo nel rosso vivo delle bandiere giapponesi, e a questa storia di eroismi compiuti per la patria e per se stessi. Concepito quasi come un controcampo di Flags of our fathers, questo film è un racconto di guerra allo stesso tempo epico e intimista e giocato sul dissidio morale tra il fare ciò che si ritiene giusto in quanto essere umano ("fa ciò che ritieni giusto perchè è giusto" sono le parole di una madre americana che verranno tradotte a un gruppo di soldati giapponesi, non a caso) e l'obbedire agli ordini in quanto soldato. O, in termini più ampi, sulla necessità di condurre una battaglia già persa in partenza e sul come gestire questo scontro, impari quanto mai.
Di fatto a Iwo Jima la schieramento di forze giapponesi è esiguo, ma in termini assoluti è quanto di meglio possa offrire un Giappone sconfitto su più fronti dal nemico americano. L'anno è il 1945, a difendere l'ultimo baluardo nipponico è chiamato il generale Kuribayashi (Ken Watanabe) che ha vissuto per un periodo negli USA. Sul campo, Kuribayashi si scontra con una concezione bellica superata e tenta di imporre il proprio punto di vista, riuscendoci fino a un certo punto. L'arrivo a Iwo Jima lo lega al soldato semplice Saigo (Kazunari Ninomiya) che salva dalle bastonate ricevute per esternazioni anti patriottiche. Saigo è un fornaio che promette alla propria figlia, ancora nella pancia della mamma, che tornerà dalla guerra per conoscerla e vivere con lei. Si unisce alle truppe il Barone Nishi (Tsuyoshi Ihara) vincitore dell'oro olimpico per sport equestri a Los Angeles e grande ammiratore del generale Kuribayashi. Questi personaggi, più un terzo con una storia segreta, sono le colonne portanti del film, sono coloro che portano il vessillo del pensiero indipendente e umano, sono i personaggi che conosciamo più da vicino e di cui abbiamo modo di scoprire i sentimenti che sono arrivati fino a noi attraverso il ritrovamento di lettere scritte in quel 1945, nascoste sotto terra e ritrovate molti anni dopo quegli eventi.
La lettera porta direttamente al cuore di colui che scrive, tanto più che gli autori delle missive qui sono persone in una condizione di guerra, con il pensiero della morte sempre presente e la mancanza di casa che aumenta di giorno in giorno. Le prime parole di Saigo sono quelle che l'uomo rivolge alla moglie e che racchiude in una delle tante lettere che le scrive ogni giorno. Le dice che sta ancora scavando e che ha il sospetto di scavarsi la fossa; la forte valenza dello scavare il cui il significato scoperto porta alle trincee sulla spiaggia (definite inutili e abbandonate con l'arrivo del generale) sarà un leit motiv per tutta la narrazione, fino al sotterramento delle lettere che permetterà a noi di leggerle, anzi, di vederle. Compagna di tutti i soldati è la morte, spesso citata e data per certa, ma accettata alla luce della strenua e ultima difesa della madrepatria, una morte che in ogni caso si possa definire onorevole, sia che avvenga per suicidio per evitare di cadere in mano nemica, sia che avvenga in battaglia. Ma c'è anche la morte, forse più comprensibile al pubblico occidentale, che si tenta di evitare, anche in nome di una promessa data.
La storia di Lettere a Iwo Jima è raccontata con tatto e senza alcun eccesso, grazie anche a una sceneggiatura che, nonostante l'epica e il valore messi in campo di continuo, non cade nella retorica autocompiaciuta e sciovinista del combattere come misura di sé, ma tiene sempre ben presente la misura umana sia dei soldati che del generale. I flashback non hanno la stessa efficacia di quelli utilizzati da Malick ne La sottile linea rossa per tracciare il vissuto emotivo dei soldati e forse eccedono un po' nella spiegazione del passato del personaggio, ma nel complesso non sono invasivi né, tantomeno, inutili. Ma il vero punto di forza del film è di sicuro la messinscena. Al tempo stesso austera e accogliente, tagliente e morbida, sempre in linea con il commento sonoro, è in grado di tratteggiare lo stato emotivo dei personaggi e di dare un'idea precisa delle sensazioni di questi nei momenti più concitati della guerra così come è capace di renderci la crudezza della morte senza bisogno di indugiare. Mirabili le scene che hanno come protagonista il barone Nishi, con gli occhi bendati da una fascia candida, alla stregua di un condannato a morte, o chinato mentre parla al suo cavallo ferito: una perfetta incarnazione di eroe umano. Il racconto avanza alla luce (fioca) della vicinanza umana dei singoli componenti dei due eserciti, composti da individui che vivono ai lati opposti del mondo, che se è vero che hanno concezioni opposte di vita, hanno anche madri che scrivono le stesse parole e che magari raccontano ai figli in guerra le gesta dei cani di famiglia e li incoraggiano alla vita e alla scelta personale (nella speranza che sia salvifica).
E quel colore quasi inesistente, dove la fotografia regge la lotta (e la vince) con il buio delle caverne costruite per difendere i pochi soldati giapponesi dall'attacco dell'orda americana, è volto a cancellare il manicheismo anche cromatico superando il forte contrasto tra colori? O quello sbiadire è piuttosto un augurio al mondo di concedersi il lusso di guardare alla guerra come a un fatto lontano nel tempo, un momento in cui esseri umani molto simili si sparavano l'un l'altro? Un fatto talmente lontano che le fotografie che lo ritraggono sono tutte scolorite e che si fatica persino a ricordare, a momenti. Perchè, di fatto, in guerra, è pressochè impossibile fare ciò che si ritiene giusto. Ciò che si ritiene giusto è tornare a casa vivi.
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