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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Voti

Il voto del redattore

  • voto
  • 3/5
  • valutazione
  • Tradito da un cast incolore, Eastwood non convince fino in fondo: si conferma regista solido e impegnato, ma l'intensità emotiva di Mystic River e Million Dollar Baby sono ben altra cosa.
  •  
 
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Il voto dei lettori

  • voto medio
  • 4/5
  • numero votanti
  • Questo film è stato votato da 2 lettori
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Info

Flags of Our Fathers

di Clint Eastwood

 
    Dati
  • Titolo originale: Flags of Our Fathers
  • Soggetto: Tratto dall'omonimo libro di James Bradley con Ron Powers
  • Sceneggiatura: Paul Haggis e William Broyles Jr
  • Genere: Drammatico - Guerra
  • Durata: 132 min.
     
  • Nazionalità: U.S.A.
  • Anno: 2006
  • Produzione: Steven Spielberg, Clint Eastwood e Robert Lorenz
  • Distribuzione: Warner Bros Italia
  • Data di uscita: 00 00 0000
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

La parabola dell'eroe involontario firmata Eastwood convince a metà

di Francesca Paciulli

23 febbraio 1945, Isola di Iwo Jima, presidio giapponese durante la seconda Guerra Mondiale. A conclusione di un'estenuante e cruenta battaglia, sei giovani marines scalano il monte Suribachi, per issare la bandiera americana. Alle loro spalle Joe Rosenthal, impugna la sua macchina fotografica e scatta l'istantanea che gli farà guadagnare il premio Pulitzer. "Speravo si riuscissero a vedere le facce" mormora al soldato che gli è accanto, al momento dello scatto. Ancora ignora che quella immagine, veicolata dalla stampa e dai vertici politici Usa, compirà il giro del mondo e risveglierà le coscienze sonnacchiose dell'America.

In realtà quella fotografia è un falso storico: quello immortalato da Rosenthal è infatti il secondo alzabandiera del dopo battaglia; il primo venne effettuato infatti da altri marines sotto lo sguardo di un politico che, dopo aver assistito alla scena, dichiarò di voler tenere per sé quel pezzo di stoffa impolverato. Il capitano della compagnia dovette così tirare giù l'Old Glory dalla vetta conquistata e spedire altri sei soldati sul Suribachi per sostituirla con una nuova bandiera. Al loro seguito Rosenthal, che da quel giorno potrà vivere di rendita grazie ai diritti d'autore. Tre di loro moriranno sotto il fuoco nemico nei giorni successivi, e i tre superstiti, Rene Gagnon, John Bradley e Ira Hayes, verranno trasformati nei volti simbolo di una battaglia nella quale morirono quasi settemila uomini e verranno richiamati in patria per "promuovere" la loro eroica azione e invitare gli americani a comprare nuovi buoni guerra per finanziare il proseguio dello sforzo bellico. A raccontare il loro tour propagandistico attraverso l'America, tra estenuanti salti temporali e qualche scivolone di troppo nella lacrima facile, è Flags of Our Fathers, ultima fatica registica di Clint Eastwood. Ispirandosi all'omonimo libro scritto dal figlio di John Bradley, James, l'ex Texano dagli occhi di ghiaccio dà voce ad una verità inattesa e scomoda: la fotografia è un falso, ma è anche ciò che la gente vuole.

Con Flags of Our Fathers, Eastwood 'sporca' un simbolo del presunto eroismo americano per raccontare quanto sia semplice, in una società addomesticata dalla finzione, accettare quello che le viene propinato. Dai giornali, dalla televisione, dal mondo politico. Un meccanismo vizioso e desolante, al quale non riescono a sottrarsi - e, in alcuni casi, non vogliono - John Bradley (Ryan Phillippe), infermiere della Marina dal cuore tenero, l'indiano Ira Hayes (Adam Beach), il soldato che annega il senso di colpa nell'alcol, e Rene Gagnon (Jesse Bradford), il più veloce ad adattarsi all'improvviso bagno di celebrità. Tre giovani uomini che, strappati al fronte, non riescono mai completamente ad affrancarsi dai ricordi insanguinati di Iwo Jima, come prova a mostrarci - in realtà senza grande efficacia - il montaggio saltellante di Joel Cox. Il presente si tuffa a più riprese nel passato e la sceneggiatura di Paul Haggis e William Broyles Jr perde di intensità, complice le interpretazioni poco convincenti dei tre giovani attori principali, a cominciare da Ryan Phillippe, dotato praticamente di una sola espressione, e Adam Beach (Windtalkers), fin troppo stucchevole nel mettere in scena le emozioni contrastanti del soldato indiano che non riesce a trattenere le lacrime ogni qual volta i ricordi riaffiorano. Se la cava molto meglio lo specialista di film bellici Barry Pepper alias Myke Strank, il soldato tutto d'un pezzo, al quale il giovane attore di Salvate il soldato Ryan riesce a conferire fermezza e umanità con giusta misura. Penalizzata da un montaggio ossessivamente altalenante, la pellicola perde lungo la strada il respiro epico e l'incisività di molti film di Eastwood (da Mystic River a Million Dollar Baby). Succede così che anche la scena della battaglia sulla spiaggia vulcanica di Iwo Jima, nel montaggio frammentato di Cox, non coinvolga fino in fondo lo spettatore e impallidisca al confronto con la sequenza dello sbarco a Omaha Beach di Salvate il soldato Ryan, firmata da Steven Spielberg, qui nelle vesti di coproduttore. Resta da capire come Eastwood tratterà lo stesso argomento nell'annunciato Letters from Iwo Jima, la stessa feroce battaglia vissuta attraverso il punto di vista dei giapponesi. A filtrare il racconto sarà questa volta lo sguardo di Ken Watanabe, il Tom Cruise d'Oriente. E c'è da scommeterci: nel confronto con l'incolore Ryan Phillippe, la star nipponica la spunterà anche senza particolari sforzi interpretativi.

 
 
 
 
 
 
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