Il voto del redattore
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- 2/5
- valutazione
Il voto dei lettori
- voto medio
- 4/5
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- Questo film è stato votato da 16 lettori
Sky Captain and The World of Tomorrow
- di Kerry Conran
- dal
- genere Fantastico
- tipo Sci-fi
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02 11 2013
Minority report
di Steven Spielberg
- Dati
- Titolo originale: Minority report
- Soggetto: Philip K. Dick
- Sceneggiatura: Jon Cohem, Scott Frank
- Genere: Fantastico - Sci-fi
- Durata: 140 min.
- Nazionalità: U.S.A.
- Anno: 2002
- Produzione: 20Th Century Fox, Amblin Entertainment, etc.
- Distribuzione: 20Th Century Fox
- Data di uscita: 00 00 0000
Recensione pubblicata il 27 04 2004
Questa recensione è stata letta 16698 volte
Minority report
di Sara Troilo
"L'esistenza di una maggioranza implica una corrispondente minoranza".
Questo è l'indizio scritto su un biglietto recapitato al commissario Anderton protagonista del racconto di Philip K. Dick; tanto gli basta per iniziare le sue indagini e arrivare a ricostruire la verità.
La stessa sorte non tocca al John Anderton (Tom Cruise) portato sullo schermo da Steven Spielberg che si sorbisce una spiegazione dettagliata riguardo alla faccenda del rapporto di minoranza, bacio straniante (citazione di Eyes Wide Shut) incluso. Questo esempio è emblematico del rapporto che intercorre tra il racconto e il film: la trasposizione su pellicola ridonda ampiamente, ci spiega tutto nei dettagli, scade spesso nella didascalia e le immagini, di per sé molto belle, non ne escono migliorate. L'incipit è clamoroso, arriva a far desiderare un reinfetamento nel buio della sala che permetta di aprire gli occhi esclusivamente per assistere alla vestizione e conseguente manipolazione di immagini di Cruise/Anderton; lo si vede, lui ci sa fare, gli basta poco per capire, dai dettagli ricostruisce il luogo del futuro delitto con precisione millimetrica, mani e occhi lo aiutano e lui li usa alla perfezione, è uno affidabile, sicuro, abituato a lavorare in intervalli di tempi microscopici. Allora perché spiegargli tutto da un certo punto del film in poi? Stesso discorso vale per gli spettatori, prima trascinati in un vortice di immagini sovrapposte, appena accennate, confuse, sbiadite, fuori fuoco, nella migliore delle ipotesi frenetiche e poi lasciati a marinare nella glassa di scenette in riva al lago, in abitazioni di legno con libri vecchi o in case futuristiche che ospitano patetici dialoghi con i cari estinti. Il contesto è la Washington del 2054, l'unico stato americano in cui opera la Polizia Precrimine con il brillante risultato di aver ridotto del 99% il numero degli omicidi; ora il popolo deve decidere se estendere a tutto il paese questa speciale forza di polizia oppure cedere al dubbio che arrestare un uomo che ancora non ha commesso un omicidio equivalga ad arrestare un innocente. Per scoprire quanto sia effettivamente perfetto questo sistema di indagini, che dipende totalmente dalle previsioni di tre precog, si unisce alla squadra della precrimine il detective dell'FBI Danny Witwer (Colin Farrel), deciso a non farsi sviare dalle apparenze, l'unico ancora in grado di lavorare a un caso aperto e non ancora pronosticato, almeno non del tutto. Gli ingranaggi del meccanismo sembrano infallibili, Witwer pare superfluo, ma un giorno John Anderton si ritrova tra le mani la palla di legno marrone (quella su cui viene inciso il nome del carnefice) con sopra scritto il proprio nome. Da qui ha inizio la fuga che regala alcune sequenze memorabili, ad esempio quella in cui si costruisce un'auto attorno al protagonista, e molte cadute di tono che toccano il vertice con l'entrata in scena della moglie del detective Anderton (Kathryn Morris). Agatha, la precog femmina, la più dotata (gli altri due hanno nomi altrettanto "gialli": Arthur e Dashiell) accompagna il detective nella sua fuga e gli chiede: "Riesci a vedere?", ma lui no, non ci riesce, ha la verità lì davanti e non la coglie; conosce il proprio destino che si sta per compiere. Agatha gli dice che può scegliere, può scegliere di avere un destino differente (invalidando il lavoro della precrimine), può scegliere di non dare ragione alle previsioni. Quel "Can you see?" risuona ossessivo, come quando si ha una parola in mente e non si riesce a ricordarla, come quando si cerca qualcosa che si ha davanti agli occhi, o, nel 2054, come quando conosci il tuo destino, ma non riesci a vederlo e quindi non riesci a comprenderlo, regista della propria vita senza aver mai visto un film.
Spielberg non aveva accanto a sé una precog quando ha girato "Minority Report" o si sarebbe sentito dire: "Ora devi girare il finale, puoi scegliere se rendere tutto digeribile e tranquillizzante e uccidere la storia, oppure non usare nessuna cortesia allo spettatore e lasciarlo inchiodato alla poltrona con il terrore di essere ancora vivo nel 2054". In compenso aveva di fianco la DreamWorks e il bambino che pesca sulla luna (nel logo della casa di produzione) batte ai punti lo sbarramento di occhi kubrickiano. Come si può perdonarlo?
Spielberg gioca mescolando citazioni illustri, Arancia Meccanica e la sua famosa terapia, con momenti di cinema per famiglie, come se non volesse mai staccarsi da quel target nemmeno in questa nerissima storia dickiana e il risultato è discontinuo, c'è la visione come momento massimo, validissimo strumento di indagine e l'aggressione alla visione (Bunuel docet); gli occhi sono l'unico modo di farsi identificare e chi è in fuga non si può tenere i propri, ma l'insieme non è un discorso organico e nemmeno una valida suggestione, prevale il mainstream che rassicurante deve essere. Insomma, dalla visione di "Minority Report" si esce con una certezza: se pretendere che Steven Spielberg non faccia film ruffiani è troppo, almeno sperare che la smetta di citare Kubrick in contesti discutibili è legittimo.
Questo è l'indizio scritto su un biglietto recapitato al commissario Anderton protagonista del racconto di Philip K. Dick; tanto gli basta per iniziare le sue indagini e arrivare a ricostruire la verità.
La stessa sorte non tocca al John Anderton (Tom Cruise) portato sullo schermo da Steven Spielberg che si sorbisce una spiegazione dettagliata riguardo alla faccenda del rapporto di minoranza, bacio straniante (citazione di Eyes Wide Shut) incluso. Questo esempio è emblematico del rapporto che intercorre tra il racconto e il film: la trasposizione su pellicola ridonda ampiamente, ci spiega tutto nei dettagli, scade spesso nella didascalia e le immagini, di per sé molto belle, non ne escono migliorate. L'incipit è clamoroso, arriva a far desiderare un reinfetamento nel buio della sala che permetta di aprire gli occhi esclusivamente per assistere alla vestizione e conseguente manipolazione di immagini di Cruise/Anderton; lo si vede, lui ci sa fare, gli basta poco per capire, dai dettagli ricostruisce il luogo del futuro delitto con precisione millimetrica, mani e occhi lo aiutano e lui li usa alla perfezione, è uno affidabile, sicuro, abituato a lavorare in intervalli di tempi microscopici. Allora perché spiegargli tutto da un certo punto del film in poi? Stesso discorso vale per gli spettatori, prima trascinati in un vortice di immagini sovrapposte, appena accennate, confuse, sbiadite, fuori fuoco, nella migliore delle ipotesi frenetiche e poi lasciati a marinare nella glassa di scenette in riva al lago, in abitazioni di legno con libri vecchi o in case futuristiche che ospitano patetici dialoghi con i cari estinti. Il contesto è la Washington del 2054, l'unico stato americano in cui opera la Polizia Precrimine con il brillante risultato di aver ridotto del 99% il numero degli omicidi; ora il popolo deve decidere se estendere a tutto il paese questa speciale forza di polizia oppure cedere al dubbio che arrestare un uomo che ancora non ha commesso un omicidio equivalga ad arrestare un innocente. Per scoprire quanto sia effettivamente perfetto questo sistema di indagini, che dipende totalmente dalle previsioni di tre precog, si unisce alla squadra della precrimine il detective dell'FBI Danny Witwer (Colin Farrel), deciso a non farsi sviare dalle apparenze, l'unico ancora in grado di lavorare a un caso aperto e non ancora pronosticato, almeno non del tutto. Gli ingranaggi del meccanismo sembrano infallibili, Witwer pare superfluo, ma un giorno John Anderton si ritrova tra le mani la palla di legno marrone (quella su cui viene inciso il nome del carnefice) con sopra scritto il proprio nome. Da qui ha inizio la fuga che regala alcune sequenze memorabili, ad esempio quella in cui si costruisce un'auto attorno al protagonista, e molte cadute di tono che toccano il vertice con l'entrata in scena della moglie del detective Anderton (Kathryn Morris). Agatha, la precog femmina, la più dotata (gli altri due hanno nomi altrettanto "gialli": Arthur e Dashiell) accompagna il detective nella sua fuga e gli chiede: "Riesci a vedere?", ma lui no, non ci riesce, ha la verità lì davanti e non la coglie; conosce il proprio destino che si sta per compiere. Agatha gli dice che può scegliere, può scegliere di avere un destino differente (invalidando il lavoro della precrimine), può scegliere di non dare ragione alle previsioni. Quel "Can you see?" risuona ossessivo, come quando si ha una parola in mente e non si riesce a ricordarla, come quando si cerca qualcosa che si ha davanti agli occhi, o, nel 2054, come quando conosci il tuo destino, ma non riesci a vederlo e quindi non riesci a comprenderlo, regista della propria vita senza aver mai visto un film.
Spielberg non aveva accanto a sé una precog quando ha girato "Minority Report" o si sarebbe sentito dire: "Ora devi girare il finale, puoi scegliere se rendere tutto digeribile e tranquillizzante e uccidere la storia, oppure non usare nessuna cortesia allo spettatore e lasciarlo inchiodato alla poltrona con il terrore di essere ancora vivo nel 2054". In compenso aveva di fianco la DreamWorks e il bambino che pesca sulla luna (nel logo della casa di produzione) batte ai punti lo sbarramento di occhi kubrickiano. Come si può perdonarlo?
Spielberg gioca mescolando citazioni illustri, Arancia Meccanica e la sua famosa terapia, con momenti di cinema per famiglie, come se non volesse mai staccarsi da quel target nemmeno in questa nerissima storia dickiana e il risultato è discontinuo, c'è la visione come momento massimo, validissimo strumento di indagine e l'aggressione alla visione (Bunuel docet); gli occhi sono l'unico modo di farsi identificare e chi è in fuga non si può tenere i propri, ma l'insieme non è un discorso organico e nemmeno una valida suggestione, prevale il mainstream che rassicurante deve essere. Insomma, dalla visione di "Minority Report" si esce con una certezza: se pretendere che Steven Spielberg non faccia film ruffiani è troppo, almeno sperare che la smetta di citare Kubrick in contesti discutibili è legittimo.
I lettori hanno scritto 5 commenti
- commento Povero Dick... Neanche un commento! Va beh, tavanata-americanata galattica. Aspetteremo il prossimo film dickiano... oh cazzo dimenticavo che il protagonista sarà Ben Affleck...
- commento Non avete trovato un controsenso... il rapporto di minoranza nel caso dell'omicidio della madre di Agatha era davvero un rapporto di minoranza?
- commento Sì che lo era, perché?
- indirizzo IP 80.19.102.186
- data e ora Lunedì 06 Febbraio 2006 [11:52]
- commento bvhvjhbkjbkjbkbnmn,nbmnbmnbm mnbm KE SKIFO!!
- indirizzo IP 80.19.102.186
- data e ora Lunedì 06 Febbraio 2006 [11:57]
- commento dall alto del cielo vedo ke sto film FA CAGARE!!
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