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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Trama

Il tributo di Wenders alla coreografa Pina Bausch.

 
 
 
 
 
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Il voto del redattore

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  • 2/5
  • valutazione
  • L'omaggio è sentito, la tecnica impeccabile, le coreografie molto belle, ma è un film: e non racconta nulla.
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Info

Pina 3D

di Wim Wenders

 
    Dati
  • Titolo originale: Pina 3D
  • Soggetto: Wim Wenders
  • Sceneggiatura: Wim Wenders
  • Genere: Musicale - Documentario
  • Durata: 103 min.
     
  • Nazionalità: Germania, Francia
  • Anno: 2011
  • Produzione: Neue Roads Movies
  • Distribuzione: Bim distribuzione
  • Data di uscita: 04 11 2011
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

La danza della morte non è macabra.

di Antinoo

Ci troviaMo di fronte al commosso omaggio di un regista visionario, Wim Wenders, ad una ballerina visionaria, Pina Bausch: talenti riuniti, solo virtualmente, in un film che parte da lontano. È infatti il 1985 quando i due artisti si conoscono, divengono amici e iniziano a pensare di realizzare qualcosa insieme. I limiti imposti dal mezzo cinema, però, han sempre costretto i due a rimandare la concretizzazione di questa idea. Ogni volta che si incontrano lei chiede “Quando?” e lui risponde “Appena avrò trovato il modo”. Il modo Wenders lo trova quando gli U2 presentano a Cannes il loro film concerto in 3D nel 2008: capisce che è la tecnologia adatta a portare in scena quel mondo di teatro-danza dell’amica e inizia a visionare in maniera sistematica tutti i film realizzati con questa tecnica, riprende in mano il progetto e, insieme a Pina, sceglie alcune coreografie da inserire: Café Muller, Le Sacre du printemps, Vollmond e Kontakthof.

All’inizio del 2009 tutto si mette in moto: il regista, la casa di produzione, Pina Bausch e la compagnia Tanztheater Wuppertal entrano in fase di pre-produzione. Ma due giorni prima delle riprese in 3D Pina muore inaspettatamente. Wenders, distrutto, decide che il film non si farà più. Molti appelli internazionali, il consenso della famiglia, lo staff, i danzatori e i moltissimi fan della coreografa lo fanno tornare sulla sua decisione e, piano piano, attraversare il lutto e realizzare non un film su Pina ma per Pina. Oltre ai brani tratti dalle 4 produzioni già citate, abbiaMo la possibilità di vedere anche filmati di repertorio con la scenografa all’opera, inclusi in modo artistico all’interno del tutto seguendo il metodo della donna: interrogare i propri danzatori e farli rispondere con il linguaggio del corpo, attraverso movimenti improvvisati. Nel film, appunto, ogni ballerino sceglie un proprio luogo simbolico, ed è lì che condivide il suo ricordo di Pina.

Ma girare un film di danza in 3D è un'impresa inedita e la produzione ha dovuto cimentarsi in un campo assolutamente nuovo, superando notevoli difficoltà, ideando strumenti tecnici e curando moltissimo la post-produzione per varcare il confine tra palcoscenico e spettatore, dando la percezione che i danzatori quasi scendano dal palco per coinvolgere i sentimenti di chi guarda. Per ottenere questi effetti, Wenders ha chiamato uno dei massimi esperti nel campo della stereografia, Alain Derobe, che ha creato una speciale attrezzatura montata su una gru: invece che montare le cineprese davanti al palcoscenico, infatti, esse sono posizionate tra i ballerini, quasi a danzare tra loro. Ogni membro della troupe, quindi, deve conoscere perfettamente le coreografie, per non intralciarle. Alla fine, con il bagaglio tecnico adatto a questa titanica impresa, la voglia di sperimentare linguaggi nuovi che da sempre lo contraddistingue e il potente ricordo dell’amica a motivarlo, il regista riesce a completare il suo poetico film.

Questa è la genesi, interessantissima di Pina. Il problema è che il risultato, a meno che non si sia appassionati di danza o addetti ai lavori è un film di una noia mortale. Non bastano le visionarie coreografie, i bei colori e gli espedienti tecnici per suscitare un qualche sussulto in uno spettatore medio quale Mi ritengo di essere, in questo caso: non ballo, non Mi gingillo in tecnologia 3D e post-produzione e quando vado al cinema Mi aspetto di essere appassionato. Vedere un corpo di ballo che esegue coreografie, intersecate da brevi spezzoni di dialogo e memorie dell’artista per 103 minuti, senza una storia portante, un accadimento o una sequenza temporale qualsiasi, diventa davvero difficile. Se, ad esempio, un numero prevede che il teatro venga invaso d’acqua questo può colpirmi se sono seduto tra gli spalti. Se, invece, tutto ciò è racchiuso in uno schermo, per quanti mezzi vengano impiegati, non lo distinguerò da un qualsiasi fotomontaggio, per quanto ben fatto possa essere e proverò la stessa sensazione che ho provato di fronte alle Valigie di Tulse Luper di Peter Greenaway: il sottoscrivere la sua dichiarazione “il cinema è morto” aggiungendo però che lo ha ucciso lui, a sbadigli.

Il difetto di Pina è, forse, l’essere troppo dettato da esigenze intime per poter essere colto e apprezzato da chi non conosceva la donna e l’artista e per la prima volta si accosta alla sua opera: un enorme, mastodontico, monumentale bel documentario ma che non possiede la qualità di attirare, oltre che per le immagini, l’attenzione di chi non ha studiato quanto meno la sinossi del tutto.

E questo, a Mio modo di vedere, è un errore colossale perché per godere - non dico appieno ma almeno in parte - un’opera d’arte questa deve essere fruibile universalmente, altrimenti non possiede quel quid che la distingue dal semplice suscitare meraviglia: sentimento che dopo il primo quarto d’ora, se non supportato da altro, svanisce.

Ciò che resta è l’iniziale coreografia, che mima, in maniera continua e circolare, lo svolgersi delle stagioni con semplici ed efficaci gesti: un eterno ritorno che riappare a chiudere il film, quasi suggerendo che la morte è solo un cambio di stato e Pina balla ancora, non solo sullo schermo.

 
 
 
 
 
 
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