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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Locandina
 
 
 
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Trama

Un chirurgo plastico, in seguito al tragico incidente in cui ha perso la propria moglie, decide di creare una pelle sintetica in grado di resistere a tutto. Gli serve una cavia umana.

 
 
 
 
 
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Voti

Il voto del redattore

  • voto
  • 4/5
  • valutazione
  • Una prova cinematografica eccellente. Film cupo, ma dalla struttura classica ed elegante, non esita a regalare allo spettatore colpi di scena e attimi di tensione.
  •  
 
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Il voto dei lettori

  • voto medio
  • senza voto
  • numero votanti
  • Questo film è stato votato da 0 lettori
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Info

La pelle che abito

di Pedro Almodóvar

 
    Dati
  • Titolo originale: La Piel que Habito
  • Soggetto: Thierry Jonquet (Tarantula)
  • Sceneggiatura: Pedro Almodóvar
  • Genere: Drammatico - Sentimentale
  • Durata: 120 min.
     
  • Nazionalità: Spagna
  • Anno: 2011
  • Produzione: El Deseo S.A.
  • Distribuzione: Warner Bros. Italia
  • Data di uscita: 23 09 2011
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

Almodóvar, tra chirurgia estetica e paura

di Anna Romana Sebastiani

Quando si dice “pelle”, il pensiero va a quella parte del corpo che riveste l’organismo umano e lo preserva dagli agenti esterni, di cui non possiamo immaginarci privati.

Il dottor Ledgard (Antonio Banderas) è un chirurgo plastico di fama internazionale, che ha fatto dello studio della pelle, e delle sue metamorfosi, la propria ragione di vita, praticando lifting e ritocchi e, allo stesso tempo, esperendo ricerche non esattamente ligie alla medicina ufficiale.

Negli antri della sua villa/clinica nasconde una giovane donna che controlla scrupolosamente attraverso un sofisticato sistema di telecamere, una cavia umana con la passione dello yoga in una stanza ipermoderna, su cui questo Frankenstein spagnolo porta avanti i suoi esperimenti; è un dottore atipico, non ha il minimo di sensibilità nei confronti dei suoi pazienti, sguardo penetrante e scabro, vuole creare una nuova pelle artefatta che possa resistere anche al fuoco.


La pelle che abito è la nuova fatica di Almodóvar, film compunto e pernicioso, una storia tremenda dove la pazzia e il corpo risultano gli ingredienti principali di una trama inquietante.

Il regista spagnolo ci ha abituato nel tempo a tinte calde e sanguigne che delineavano anche le storie più dolorose; con quest’opera sembra esserci una svolta cupa, un’asettica presa di coscienza della parte più oscura degli uomini. Una fotografia eccellente, che è valsa al film il premio al Festival di Cannes, accompagna lo spettatore attraverso percorsi interiori di follia e lacerazione, un labirinto di sentimenti negativi che connota il protagonista Ledgard e che ha il suo snodo fondamentale nella stanza dove è rinchiusa Vera (Elena Anaya).

La pazzia aleggia su tutti quelli che circondano Ledgard, in una sorta di concatenazione dove si dirimono le vicende di un universo poco armonico e fatto di contrapposizioni, che rompe la tradizione dei personaggi “a tutto tondo” tipici della cinematografia di Almodóvar.

Banderas, in stato di grazia, dà vigore a un medico sulla carta poco credibile rendendolo, invece, il paradigma abietto dell’uomo contemporaneo: epurato della spiritualità, e di tutti i buoni sentimenti, cerca di vincere la stessa morte attraverso la manipolazione scientifica; viene così a definirsi una riflessione sul mondo odierno e sul superamento dei limiti attraverso gli occhi di un folle.

È un medico dalla volontà onnisciente, che possiede il controllo totale sull’ambiente in cui si muove e non esita a intimidire le persone attraverso una pistola.

La trama si dipana tra colpi di scena attuali e racconto degli eventi passati, in un arco di tempo che copre pochi anni, svelando gli innumerevoli misteri che si celano dietro la figura di Ledgard.

Proprio il personaggio di Banderas sembra tenere uniti i fili di un film ad “alta tensione”, in cui le scene si susseguono in un mix di paura ed horror, tuttavia, nonostante lo scostamento dal filone precedente, vi si ritrovano i temi cari al regista spagnolo: l’amore, la vendetta, la violenza, la follia, questa volta irrigiditi e assorbiti all’interno di un nucleo tematico dal sapore improbo e tetro.

Almodóvar, da sempre affezionato ad esuberanti figure femminili dalla svelta loquela, ci propone ne La pelle che abito dialoghi smorzati ed essenziali, preferendo far comunicare gli attori con il linguaggio corporeo, in particolare attraverso i primi piani sui volti dei protagonisti.

Ciò gli consente di scandagliare l’umanità residua dei personaggi dai volti rabberciati, ricuciti, mascherati, i quali ripropongono l’ossessione su cui si costruisce l’uomo Ledgard.

Il personaggio di Banderas cercherà nel finale di modificare la relazione di potere instaurata con Vera, una donna troppo simile alla moglie defunta, di cui sbaglierà a pensare, in modo pretestuoso e sadico, di poter controllare anche l’intimità inviolata che si cela dietro la sua “nuova” pelle.

Almodóvar ci ricorda che la pelle si può solo “abitare”, perché quello che si nasconde dietro, e non è visibile, rimane intoccabile.

L’ennesima prova di un regista che sa tradurre temi delicati attraverso un linguaggio cinematografico soggettivo e ineguagliabile.


 
 
 
 
 
 
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