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Enfant Terrible

Vorrei soltanto aggiungere un breve aneddoto a quanto hanno ampiamente e passionalmente argomentato i miei cinefili compagni d’avventura. Qualche giorno fa, mia mamma è tornata a casa dal lavoro con aria molto avvilita a causa di un fatto accadutole sul lavoro. Mia madre fa l’insegnante alle elementari, e i suoi alunni hanno 9 anni. Non appena chiusa la porta di casa, mi ha detto queste parole: “in ventitré anni di insegnamento non mi era mai accaduta una cosa del genere: ho un alunno che, quando litiga coi compagni, per insultarli urla a squrciagola : stai zitto, comunista di merda!”. E ancora: “dopo la lezione è venuto da me e ha detto: maestra, non so se ci vedremo ancora dopo le vacanze di Pasqua, mio papà ha detto che se la sinistra vince, andiamo via dall’Italia”. Pensateci bene, in ventitré anni di professione questa cosa le è successa proprio adesso. Ventitré anni in cui il nostro paese ha attraversato svariate divisoni più o meno giustificate dall’ideologia, dal contesto storico, dalla cultura e dal costume. So bene che non è certo questo fatto il sintomo dell’attuale deriva del nostro paese, così come so che probabilmente una volta i genitori stavano più attenti a quello che dicevano in presenza dei bambini e lo stesso vale per i presidenti del consiglio; ma so con certezza anche un’altra cosa: dopo le vacanze di Pasqua, quel bambino, spero tanto che non faccia più parte della classe di mia madre.

PPP

Ancora Guzzano. Per chi volesse leggere qualcosa di intelligente su Pasolini diverso dalle patetiche incensature bipartisan di questi giorni.

30 anni dopo il Lido di Ostia – il cinema di PIER PAOLO PASOLINI: uno sguardo ALTRO

Quando Pier Paolo Pasolini decide di mettersi a fare anche il regista, in Italia è l’anno del Signore 1960, lui ha quasi 40 anni, vive a Roma ed è fresco del successo di “Una vita violenta” dopo stagioni stentate ma caparbie, fatte di fughe e di squalifiche pisco/politiche che non l’hanno comunque piegato. Di tecnica cinematografica non sa nulla, né molto vorrà mai sapere. Anche quando si piegherà al colore (in “Medea”) e a qualche giochetto più sofisticato con la macchina da presa, si trattò di minime alterazioni dell’ingenuità che egli riteneva necessaria, elementi rilevabili solo per contrasto con il totale disinteresse ‘tecnico’ esercitato fino ad allora. Far seguire all’inquadratura quel minimo di abbecedario che la celluloide richiede fu sempre compito di altri: del suo aiuto Bertolucci, delle troupe che spesso giravano un film canonico e parallelo mentre il regista realizzava in proprio le sue immagini scorazzando con la camera in spalla.
Perché il cinema per Pasolini fu un atto di istinto. Come il marxismo. Una tensione ritenuta indispensabile e giusta verso il lato debole del mondo. (Mamma Roma, a caccia di borghese uguaglianza, non vuole che il figlio se la faccia con i comunisti perché sono ). Il posto giusto, la parte giusta al cui interno operare sfidandone le regole e i conformismi camuffati da rivoluzione (inutile sottolineare quanto entrambi – cinema e Pci – svilupparono ben presto violentissimi anticorpi contro di lui). Fu lo sfociare di una passione che non faceva distinzione tra i canali in cui sentiva di doversi esprimere. Nonché la tentazione di portare all’interno di un’arte codificata le armi di un totale disarmo estetico. Lo stesso vale per la sua lettura del Cristo: una scarnificazione naif della figura e una cancellazione della liturgia che non furono del tutto sgradite al lato progressista del clero di Giovani XXIII.
Dire che Pasolini fosse digiuno di tecnica non vuol dire che per lui il mondo del cinema fosse un pianeta sconosciuto. Lo bazzicava da anni: prima comparsa a Cinecittà, poi collaboratore alle sceneggiature di Soldati, Bolognini e Fellini che l’aveva voluto consulente per la ‘romanità’ dei dialoghi di “Le notti di Cabiria”. Ma non trovò il minimo credito quando mise al servizio dell’imperizia con la macchina da presa le sue impresentabili ispirazioni: il cinema muto, i russi, Chaplin (citato ad ogni angolo), eterni primi piani, salti di tempo e luogo non spiegati, un fritto misto composto da facce prese dalla strada e messe sulla scena ad interpretare se stesse in ambienti essiccati ma su celebri sfondi di musica classica e col rischio di incappare nelle repliche di seducenti opere di quella storia dell’arte che tanto aveva suggestionato Pier Paolo studente universitario. Poi verranno le voci e le facce note, amici intellettuali e adorate dive un po’ in disarmo: la Magnani, la Mangano, la Callas. E’ il lato devoto/glamour di ogni omosessualità.
Il cinema di Pasolini è pura testimonianza e pura pornografia. E non certo nel senso in cui l’intesero i mille processi, sequestri e picchetti su cui sorvoleremo e che ne tormentarono lo sviluppo disonorando la nostra mediocre patria (reazionaria e bigotta, anche lei per istinto. Ma istinto figlio d’ipocrisia). E’ pornografico nell’esibizione stentorea delle bruttezze dei visi, dei sassi, delle discariche, dei casermoni e delle coscienze fino a scovarvi dentro una bellezza sfrondata e perduta, soffocata da un progresso omologante e (è la compassione che manca a Ciprì e Maresco, laddove il peto suona meno necessario che in Pasolini). E’ l’occhio sgranato di un testimone curioso eppure rassegnato che percuote i suoi personaggi alla disperata ricerca dell’aurora del mondo. E’ cinema preistorico: fatto di ossa, cannibalismi, Storie millenarie accostate a storiacce presenti (< ..il percorso dell’uomo non è che memoria cancellata..>), corpi martoriati, interpreti sgrammaticati, assoluto e celebrato senso di morte. Provate a scorrere le trame di Pasolini e vi accorgerete di star percorrendo una via crucis che parte da “Accattone” (ed è bello che a Parigi ci sia un cinema con questo nome), “Mamma Roma” e “La ricotta”, risplende nel “Vangelo secondo Matteo”, passa per i film e i corti con Totò (parolai certo, comizianti ed irrisolti), non risparmia neppure “La trilogia della vita” e sfocia in “Salò” e nella fine stessa dell’uomo/autore: insistite tappe di morte, di creature sghembe che muoiono salutate festosamente dall’idea che solo morendo esse siano finalmente esistite. La fine di se stessi come protesta, come unica possibile rottura, come ‘fanculo al sistema dell’esistenza borghese, che è robaccia tanto scaltra da sapere come inglobare ogni dissenso, ogni grido, ogni critica: ovattando tutto, rispettosa e tollerante.
Dopo aver assistito al “Teorema” per immagini di Pasolini (per il borghese nato tale non c’è redenzione, per gli altri l’unico scampo è estinguersi in qualcosa perché < ..non vi può essere uguaglianza ricevuta, ma solo uguaglianza conquistata>) è difficile evocare complotti dietro ciò che avvenne sulla spiaggia di Ostia. Comunque sia andata vi si compì un epilogo, la sceneggiatura tragica che al suo protagonista sarebbe probabilmente piaciuto scrivere. Sia che Pasolini sia stato solo un artista di talento che fece una tragedia cosmica del suo piangere sulla scomparsa del proprio ideale sessuale (il borgataro/marchettaro non contaminato dal consumismo) come oggi recita parte della critica omosex (Giovanni Dall’Orto in testa); sia che egli sia stato il profeta di un’Italia ancora da svezzare e in perenne dittatura, un paese diviso ed incapace di ascoltare (di tollerare sì, ed è quello il guaio), un cane sciolto che abbaiava al sacro e al profano miscelandone gli orrori e le beatitudini, Pasolini fu uno che credette che l’unico modo per fare la rivoluzione fosse vivere come se la rivoluzione fosse già stata fatta. Tutto il suo cinema, volutamente imperfetto nelle forme e fieramente sovraccarico nelle sostanze (difetti che ne zavorrano oggi la possibilità di essere materia durevole), è lì a provarlo: ostinati tentativi di un’anarchia apocalittica che spezzasse le reni all’omologazione creando un luogo, un tempo, un uomo Altro. Toccata con mano l’impossibilità di ottenere un risultato di estrema rottura almeno a livello culturale, dopo aver peregrinato per l’India e l’Africa alla ricerca di dinamiche più pure, dopo aver rinnegato con dolore quella “Trilogia della vita” in cui il sesso sbocciava naturale e sereno essendo pre-tutto, a Pasolini non rimase che l’estremo graffio indecente, la bomba atomica lanciata contro la perdita di ogni innocenza: quel disturbante “Salò” i cui stessi attori si ribellavano alle sconcezze. Quanta eccitata disperazione nella mano che ci imbandisce la merda in tavola, che tende quei guinzagli, che va a ricercare in Sade (nei Sade di ogni tempo) i perversi figuri che hanno fatto vergogna anche dei bisogni corporali più immediati e necessari, i pilastri di quella che Pasolini finì così di rimpiangere e di sollecitare.

Fonte: www.alessioguzzano.com

Solo con te vinciamo

Era la fine dell’estate 2002 quando con un amico si sfrecciava allegramente sull’Autosole di ritorno dal mare. Più o meno all’altezza di Modena vediamo sulla corsia di sorpasso una berlina blu preceduta da un altro paio di macchine nere, delle quali una aveva anche la sirena sul tetto. Incuriositi e già pronti al peggio, approfittiamo di un incolonnamento per affiancarci e sbirciare
l’identità del politico scortato: “cazzo ma quello è Prodi!”. Non so esattamente perché, ma vederlo seduto lì dietro, tutto indaffarato in maniche di camicia e al cellulare, ci fece un effetto di grande fascino, e provammo subito il desiderio infantile di salutarlo, di dirgli qualcosa. Ci affiancammo nuovamente e ci sbracciammo col massimo sforzo possibile per farci notare; Romano ci vide e dopo qualche istante, a metà fra lo stupore e la gioia contraccambiò i nostri saluti. Ci affiancammo una terza volta e in quest’occasione ci salutammo tutti e tre vigorosamente col pugno della mano sinistra chiuso, sorridendo, quasi esultando per non si sa bene che cosa. Fu allora che il mio amico prese un sacchetto del pane, me lo passò e mi disse “scrivi qualcosa, la prima cosa che ti viene in mente”. Il ricordo della sconfitta del 2001, arrivata in quel modo con Rutelli “o bell’ guaglione” era ancora vivido, l’amarezza aveva da poco iniziato a tramutarsi in rabbia per gli avvenimenti legati alla nuova classe dirigente. Scrissi “solo con te vinciamo”. Ruffiano, ultrà della curva sud, quello che volete, ma alla fine lo scrissi e schiacciai pure il sacchetto contro il finestrino, in attesa che Prodi lo leggesse. Quando vide il sacchetto, fece un sottile sforzo per vedere cosa c’era scritto e una volta letto scoppiò a ridere e ci fece un gesto come a voler significare “eh, magari!”. Forza Romano, facci gridare presto che forse non avevamo tutti i torti.

Guzzano e I Duellanti

A volte i dibattiti fra la critica specialistico-cartacea e quella on-line riservano qualche sorpresa e possono portare a dei veri e propri confronti anche aspri. Alessio Guzzano, critico cinematografico rappresentante della free-press di City e titolare di un sito personale, si è trovato a dover rispondere al ritratto tracciato da Simone Ciaruffoli, in visita nel suo sito-blog per una rubrica dedicata ai blog cinematografici comparsa sul numero di Settembre de “I Duellanti”. I risultati sono quantomeno esilaranti, tanto da far venir voglia di pubblicare per intero il dibattito su queste pagine. Chissà che un giorno “I Duellanti” non visitino anche il nostro blog.

Alessio Guzzano è un fenomeno. E va studiato.
È lo spettatore che ce l’ha fatta. E se ne compiace. Il suo sito di fatto è un blog, diario di un ego sconfinato che distribuisce perle di saggezza al popolo. Edmund Husserl, se avesse potuto, avrebbe tranquillamente inserito nella sua nuova scienza anche il fenomeno Alessio Guzzano, colui che senza timore scrive di Hitchcock come di un pallone gonfiato da Truffaut. Lapide alla Zelig (non il film), tipologia di frase che ogni individuo che voglia passare alla storia deve prima o poi formulare. Simbolica, essenziale, difficile da dimenticare, evocativa, straziante per come profana un amore (quello truffautiano) in nome di un odio. Alessio Guzzano (www.alessioguzzano.com) è un affabulatore, è come Maria De Filippi, solo che quest’ultima usa un linguaggio moderno. In entrambi gli intenti sono però i medesimi: arrivare al lettore nel primo caso, allo spettatore nel secondo. In televisione è con una calcolata prossemica che la presentatrice fidelizza i suoi appassionati, tre le pagine di “City” (il free press del Gruppo RCS distribuito in nove città italiane), o quelle del suo sito-blog, è con l’umorismo e una prosa arcaica che il mitico “Guzz” attecchisce come le radici fiorite del video “Enjoy the silence”. Quello tra Guzz e il suo lettore è un amore che non teme confronti. E’ il suddito che diventa Re e ai sudditi non fa paura. E’ uno di loro. Guzz infatti non vorrebbe mai ambire alla nomea di miglior critico (nemmeno ci si sente, critico), ma di miglior spettatore sì. E’ lo spettatore che ce l’ha fatta, è il soggettivismo che matura di uno scatto. E’ il soggetto che diventa fenomeno e soggiace all’adulazione di chi spera di raggiungerlo, prima o poi. Questo è www.alessioguzzano.com. Non importa che la meni ancora da purista della sceneggiatura, o che sgonfiando Hitchcock sgonfi la metà del cinema tutto. E nemmeno che non abbia un-barlume-uno dei processi filmici e della complessità del Cinema (della quale, guarda caso, Hitchcock è un archetipo), l’importante è parlare la lingua del popolo e al contempo manomettere, da abile sensale, il lavoro della critica specialistica. Il suo soggettivismo sbandierato (ovvero soggettiva che si fa metodo, ovvero oggettivismo) con tutti i suoi componenti e aliti democratici è la cifra del suo atteggiamento nei confronti del lettore, e poi del cinema. L’ironia con la quale demolisce i film, ha lo stesso valore sensazionalistico e autoreferenziale delle opere di Cattelan. Solo che per l’artista padovano la critica e l’oggetto della stessa coincidono, per Guzz la sua critica coincide solo con se stesso e con la concupiscenza offerta al lettore: guarda come ti ci faccio ridere sopra a ‘sto filmetto!
E’ un fenomeno il Guzz, e va studiato come qualsiasi sintomo sociale. Anche se poi il meccanismo ha le gambe corte. La sua abile ironia va infatti accolta non come prassi stilistica, altrimenti Guzz la dovrebbe adottare anche per i film di suo gusto, ma come furbo distacco moralistico dalle opere detestate. C’è del marcio, direbbe qualcuno. Ma non importa, perché questo è il pegno da saldare per chi, scrivendo, istituisce un rapporto intimo con chi lo legge; come il romanziere. A Guzz non interessa tanto il film, o meglio il suo regista, gli interessa la sua platea e il canale privilegiato attraverso il quale spedire frantumi del proprio ego, o di soggettività, per usare un eufemismo. In un certo senso sta agli antipodi di un Serge Daney, che con i suoi pezzi scriveva una “lettera aperta” al regista del film, e il fatto che questa venisse intercettata e letta anche dai potenziali spettatori di quel film, era una cosa secondaria. Un’umiltà quella di Daney, un amore per il cinema quello di Daney, che è per sua natura il maggiore rispetto esercitabile nei confronti del lettore: dimenticare di avere di fronte una platea e di esserne il protagonista. Proprio quello che non fa Alessio Guzzano, il suo sito infatti è impostato come un blog, più di un blog (per questo ce ne occupiamo qui), teso a venerare se stesso come fosse cellulosa tra la cellulosa. E pensare che è proprio Guzzano uno di quelli che ce l’ha a morte con le riviste specializzate, con chi, a sua detta, ma non solo sua (si pensi al Mereghetti), non fa altro che perdersi in sterili onanismi e autoreferenzialità. www.alessioguzzano.com è comunque il sito del Guzz, di chi non si perde in sterili onanismi e autoreferenzialità, di chi ha in mente solo i film e il cinema quello vero e fico, quello con la lettera “G” maiuscola. Stay tuned…

SIMONE CIARUFFOLI

Raccolgo l’invito dell’amico/collega Ezio Alberione (scelga lui ciò che meno l’offende, lo immagino gongolante per interposta penna) e replico alla recensione del mio sito (in realtà: della mia persona e dunque chiedo venia se parlerò di me) a firma di Simone Ciaruffoli. Lo faccio volentieri, a prezzo di nuove accuse al mio ego-presunto-sconfinato. Che non ambisce a , in quanto nato a mollo in un outsider per vocazione e scelta (controllare che non sia retorica), uno che guarda e scrive refrattario ad ogni maniglia festivaliera, consorzio universitario, cricca giornalistica e che – valga come promessa a lorsignori in allarme – tra un paio d’anni farà un altro lavoro guardando qualcos’altro (gradito lo sport). Scrivo, rigorosamente a pagamento (il che consente all’uomo e al sito di essere liberi da sponsor), su convocazione di coloro che apprezzano il mio stile, ammesso io ne abbia uno. Scrivo fiducioso che i miei giudizi non vengano liquidati come odio/boutade da chi confessa di vivere di archetipi. Da chi coltiva dubbi da terrazza (come stroncare la Wertmüller, ché poi me la ritrovo a cena?), da chi si ritiene commissario di un presunto popolo sempre sull’orlo della punizione siberiana (figuri-ni che incappano nelle geometrie esistenziali di “Closer” e gli rimproverano ), da chi se gli tocchi il vecchio satiro Hitch – sbrigativamente, lo riconosco; gli spazi di “City” sono ristretti –, se spalanchi la finestra del cortile degli intoccabili, subito strepita di processi filmici e prossemica (!!), perché nel regista che saprebbe troppo il cinema si esaurirebbe. Vissuti invano: Lang, Chaplin, Welles, Marcel (eresia!) Carné, pallone sgonfiato da Truffaut e poi riabilitato con la consueta grinta assolutista (rimando ai i dubbi di Claudio Carabba sui limiti ‘generazionali’ del francese che noi tutti generazionalmente amiamo). Ma Ciaruffoli ha ragione nel merito. Che per me è tale e per lui/voi demerito. Ha frugato con proficua dedizione il sito e la psicologia del sottoscritto. E dunque sorvolo sul paragone con la De Filippi (offese così si regolano in qualche orto, di buon mattino, a scudisciate) e sull’ammiccante “Guzz” che egli berluschinamente mi appioppa nell’immaginario collettivo. Egli stigmatizza ciò che io rivendico. Ritiene marchio d’infamia critica le modalità d’indagine e comunicazione che a me paiono necessarie. Strabilia di fronte a chi si dichiara soltanto un sagomato filtro verso il lettore ed espone fuori dalla torre d’avorio i suoi percorsi e strumenti, ovvero se stesso (la mia formazione è psicologico/letteraria, non ho problemi ad ammettere di essermi dovuto studiare il controcampo). Che fa il tifo pro o contro proponendo realtà increspate dal tifo medesimo. E’ quello che il vostro recente nemico Mereghetti chiama , ancora convinto che la critica esista. Invece esistono soltanto i critici, vittime/artefici di allenate, motivabili pulsioni. E’ una realtà inevitabile. Onesta. Il contrario della pregiata quanto inutile autoreferenzialità in cui molti duellanti si crogiolano (mica ha sempre torto, il Mereghetti). Cosa intende dire il critico teatrale del “Corriere” Franco Cordelli quando scrive degli allestimenti di Strehler: < …perché non mi piacevano e oggi mi piacciono fino alle lacrime? Credo che nel 1986 avrei rifiutato "Temporale" per le sue qualità poetiche e, in apparenza, al di sopra della mischia: cioè per la concentrazione e intimità che oggi mi appaiono sempre più urgenti>. Forse che il critico non è soltanto un mezzo ma anche parte del fine? Ha ragione infine Ciaruffoli quando trasecola al suono di quella desueta parola: lettore. Io manometterei il lavoro della critica specialistica? Troppo onore. Sabotatore da medaglia. Guastatore. Sarei la benedetta orgia che insidia la reciproca solinga masturbazione. L’amplesso degli aggettivi comprensibili che affligge l’eloquio segaiolo (ops, onanista). Come forse direbbe l’iconoclasta Cattelan, al quale il “Ciaru” indegnamente mi appaia.

Con fiducia

ALESSIO GUZZANO

Fonte: www.alessioguzzano.com

Il coraggio di non guardarsi in faccia (e di perderla).

Fazio cacciato da Washington. Il governatore della Banca d’Italia ha lasciato in anticipo il Development committee della Banca Mondiale, dopo che Tremonti gli aveva revocato la delega a rappresentare l’Italia. Al suo posto siederà al tavolo rotondo un funzionario del tesoro. Ma c’è di peggio. I due, prima del burrascoso colloquio che ha portato alla rottura, nella giornata di ieri hanno seduto allo stesso tavolo, hanno presieduto entrambi alla conferenza stampa del G7, senza guardarsi in faccia, lasciando che a dividerli ci fosse il direttore generale del tesoro, Vittorio Grilli. Roba da consiglio pastorale d’oratorio, da far tornare in auge una celebre frase di Gaber: “Lo stato peggio che da noi solo l’Uganda”.
Il giorno prima Tremonti, appena ricevuta la rinomina a ministro, incalzato da giornalisti e televisioni, si era mosso come un attore consumato sul palcoscenico, ridendo, scherzando, improvvisando addirittura un’imitazione di Fazio. Roba da perderla, la faccia. Sarò poco originale, ma un comportamento del genere non mi pare esattamente il più indicato per il titolare di un ministero responsabile della gravissima crisi economica che sta attraversando il nostro paese o per un rappresentante di una maggioranza che ha cambiato più ministri degli allenatori dell’Inter nell’era Moratti. Tremonti il “genio”, Tremonti il grande economista, colui che a detta di Berlusconi non andava preso in giro dal Bagaglino perché “ci fa risparmiare un sacco di soldi” è tornato dopo aver già affamato il paese una prima volta, promuovendo riforme folli e finanziarie da pelle d’oca (chi vuol conoscere esattamente cifre e entità di questo sfacelo si legga l’ultimo editoriale di Scalfari su “L’espresso”). Forse, l’imitazione di Guzzanti che ritrae il “genio” intento a giocare a videopoker coi soldi degli italiani, ha una valenza drammaticamente metaforica. Invece, la “patella attaccata allo scoglio”, come scrive il Financial Times, è rientrata in Italia sul Falcon privato, oramai sfiduciato anche dal pilota. Il passo che ci separa da una crisi economica stile Argentina non è poi così lungo, ma in fin dei conti è meglio occupare l’opinione pubblica con altre questioni, tipo un’altra legge truffa o, ancora meglio, Kate Moss che sniffa la cocaina.
Mentre scrivo invece, si sta consumando a 150 metri da casa mia la monumentale “Festa Tricolore”, chissà che qualcuno dei partecipanti non ci regali qualche chicca tipo l’esibizione di Borghezio di qualche giorno fa durante il raduno della Lega a Venezia (“Ci scusiamo coi giornalisti perché l’Imam di Torino non è potuto venire, ma era impegnato a ricevere il calcio in culo che gli ha rifilato la Lega, è tornato a rompere i coglioni in Marocco”); forse solo Gianni Prosperini (uno che sui suoi manifesti elettorali utilizzava lo slogan “Cinesi? No glazie”) potrebbe fare un numero da baraccone di tale genere, staremo a vedere, sempre con fiducia ovviamente.