L’ambasciatore di Pechino si lamenta della scelta di Bertinotti di ricevere il Dalai Lama, premio nobel per la pace e rappresentante del governo tibetano in esilio, il pezzo forte [da repubblica.it]:
Il diplomatico ha ricordato che la Cina è un Paese “multietnico”, in cui “i diritti delle minoranza sono protetti dalla Costituzione e ci sono cinque regioni e oltre mille villaggi autonomi”.
ROTFL
Un po’ come se Hitler dichiarasse che il nazismo aveva tra i suoi valori la protezione degli ebrei e dei diritti degli omosessuali.
La Cina sta devastando il tibet con un programma di sinizzazione che va avanti dal 1950 quando l’esercito “di liberazione” cinese ha invaso il Tibet mettendo in fuga il Dalai Lama. Tramite internet è possibile documentarsi ampiamente su ciò che è accaduto, trovando le opinioni da entrambi i punti di vista: quello cinese e quello tibetano. Tra i punti a favore del punto di vista cinese viene spesso menzionato il fatto che il Tibet pre-invasione era fondato su valori mediovali, dove alcuni monaci si comportavano da feudatari sfruttando gli abitanti e impedendo lo sviluppo. In questo c’è del vero, il Dalai Lama e alcuni esponenti tibetani l’hanno già ammesso. Dall’altra parte la Cina ha pensato di risolvere il problema nel peggior modo possibile, con la distruzione dei monasteri e una missione che implica l’annientamento della cultura tibetana con la sinizzazione dell’area grazie anche a forti incentivi per gli Han (il ceppo etnico dominante) a emigrare negli ostili altipiani himalayani.
Alla guerra contro la cultura si accompagna una drammatica, tragica devastazione del territorio che vanta tra le ultime trovate la ferrovia Pechino-Lhasa. Un progetto economicamente suicida, condotto in fortissima perdita che ha come unico scopo l’affermazione della potenza cinese agli occhi della popolazione e lo sfruttamento, o la distruzione, di una delle più grandi ricchezze dell’umanità , l’ecosistema himalayano.
I danni della costruzione della ferrovia sono inquantificabili. Basti pensare che per consolidare alcuni tratti in quota è necessario mantenere la terra ghiacciata anche nelle ore assolate, per questo i cinesi hanno introdotto dei pali-frigorifero piantati su tutta la lunghezza interessata (circa 500km). Immaginate il costo in termini di consumi energetici. Alla scelleratezza si aggiunga il fatto che buona parte del tragitto si svolge in aree a forte rischio sismico come spesso accade nella catena dell’Himalaya.
Insieme alla facilità di trasporto sono arrivate le ruspe che, dichiarano i locali, quando scavano non si preoccupano nemmeno di ricoprire i buchi. I percorsi tradizionali della pastorizia sono sconvolti dalla stada ferrata: è possibile attraversarla solo in piccoli ponticelli ricavati solo per potersi vantare, come recita la voce nel treno, di aver realizzato il progetto nel pieno rispetto dell’ambiente e delle popolazioni locali. Ovviamente è impossibile far passare un’intera mandria in un passaggio di pochi metri, infatti i cinesi impongono ai pastori di pagare i danni eventualmente arrecati dagli yak indisciplinati che intralciassero il cammino del treno. Affiché ciò non accada i cinesi hanno comunque disposto delle guardie ogni pochi chilometri che controllano continuamente tutta la lunghezza del tracciato, non sia mai che passi qualche vandalo tibetano arrabbiato per lo sconvolgimento del suo ambiente.
Alla fine del tragitto si arriva a Lhasa, la città che rappresentava il fulcro della filosofia tibetana, tempio dell’introspezione e della ricerca della più intima natura umana, oggi trasformata in uno show di fuochi artificiali e luci simile all’hotel Bellagio di Las Vegas, per la gioia del turismo di massa che del Tibet introspettivo non se ne fa nulla.
Però la Cina tiene molto a cuore i diritti delle minoranze, senz’altro.
La maggior parte delle informazioni contenute in questo post provengono dal bellissimo documentario della giornalista francese Marie Louville “Tanggula Express, un train sur le toit du monde”
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